Pagina:Ariosto-Op.minori.1-(1857).djvu/262

Da Wikisource.

elegia decima. 233

Nè vidi far d’alcun sì fiero strazio,
48Che pareggiasse la gran pena mia.
     Grave fu il lor martír, ma breve spazio
Di tempo diè lor fine. Ah crudo Amore,
51Che d’accrescermi il duol non è mai sazio!
     Io notai che il mal lor li traea fuore
Del mal, perchè sì grave era, che presto
54Finía la vita insieme col dolore.
     Il mio mi pon fin sulle porte, e questo
Medesmo ir non mi lascia, e torna addietro,
57E fa che mal mio grado in vita resto.
     Io torno a voi, nè del tornar son lieto
Più che del partir fossi; e duro frutto
60Della partita e del ritorno mieto.
     Avendo, dunque, de’ rimedî il tutto
Provato ad uno ad un, fuor che l’assenza,
63Ch’al fin provar m’have il mio error indutto;
     E visto che mi nuoce, or resto senza
Conforto ch’altra cosa più mi vaglia;
66Ch’in van di tutte ho fatto esperïenza.
     E son le maghe lungi di Tessaglia,
Che con radici, immagini ed incanti
69Oprando, posson far ch’io mi rivaglia.1
     Io non ho da sperar più da qui innanti,
Se non che ’l mio dolor cresca sì forte,
72Che, per trar voi di noja e me di tanti
     E sì lunghi martír, mi dia la morte.




ELEGIA UNDECIMA.




     O qual tu sia nel cielo, a cui concesso
Ha la Pietà infinita, che rilevi
3Qualunque vedi ingiustamente oppresso,
     Gli affettüosi preghi miei ricevi;


  1. Rivalersi, per Tornar valido, usato ancora dal Caro, nelle Lettere al Tomitano («attendere... a rivalermi dalle mie indisposizioni.») Vedi il Vocabolario del Manuzzi. Certo, questi due grandi scrittori intesero a darci tradotto il verbo latino revalescere.