Nè per saziar la gola sua gaglioffa
Perdona a spesa; e lascia che di fame
Langue la madre, e va mendica e goffa.
Poi lo sento gridar, che par ch’ei chiame
Le guardie, ch’io digiuni, e ch’io sia casto,
E, che quanto me stesso, il prossimo ami.
Ma gli error di quest’altri così il basto
De’ miei pensier non gravano, che molto
Lasci il dormire, o perder voglia un pasto.
Ma, per tornar là d’onde io mi son tolto,
Vorrei, che a mio figliuolo un precettore
Trovassi meno in questi vizj involto;
Che ne la propria lingua de l’autore
Gli insegnasse d’intender ciò ch’Ulisse
Sofferse a Troia, e poi nel lungo errore.
Ciò che Apollonio, e Euripide già scrisse,
Sofocle, e quel, che da le morse fronde
Par che poeta in Ascra divenisse:
E quel che Galatea chiamò da l’onde,
Pindaro, e gli altri, a cui le Muse Argive
Donar sì dolci lingue e sì faconde.
Già per me sa ciò che Virgilio scrive,
Terenzio, Ovidio, Orazio; e le Plautine
Scene ha vedute guaste, e a pena vive.
Omai può senza me per le Latine
Vestigie andar a Delfo, e de la strada,
Che monta in Elicon, vedere il fine.