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Pagina:Atti del parlamento italiano (1861).djvu/42

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camera dei deputati — sessione del 1861


Vi ricorderò il magnanimo Carlo Alberto, il magnanimo datore dello Statuto, il genitore di Vittorio Emanuele II, l’esule generoso d’Oporto? La sua memoria sta scolpita nel petto vostro, e starà nel petto degl’Italiani eterna!

Or bene, o signori, disgiungerete voi Vittorio Emanuele II dalla serie dei generosi suoi avi, dalle illustri tradizioni della sua casa?

Ma voi mi dite: sì, noi lo faremo, e non ne avrà onta il magnanimo Re, il ristauratore d’Italia nostra, della nuova Italia; noi lo chiameremo col nome di Vittorio Emanuele I, perchè nel nome di Vittorio Emanuele II sta la dinastia, sta il diritto di nascita, sta l’ingrandimento, sta la conquista; Vittorio Emanuele è figlio della sua gloria, della sua lealtà, del suo valore!

No, o signori. Col chiamarlo Vittorio Emanuele II voi non riconoscerete nè un diritto di nascita, nè un diritto di conquista, nè l’ingrandimento. Non durano i regni per lunga età, per lungo ordine di secoli, se non col concorso del volere dei popoli, e quando io veggo una dinastia di principi regnare per una non interrotta serie di molti secoli, io riconosco congiunti in una sola volontà, quasi nell’imperio stesso, popoli e principi.

Voi ben sapete diffatti come nessun tiranno vi fu in questa Dinastia; voi sapete che non n’era il Governo dispotico, ma era di monarchia temperata; non si avevano, il so, le presenti guarentigie costituzionali, ma si avevano però guarentigie larghe assai; ed è all’ombra di queste che i popoli subalpini camminarono coi principi loro nelle vie del progresso, della libertà, dell’indipendenza d’Italia, della sua unità.

Ma voi mi dite: Re e popolo subalpino erano concordi, erano uniti; ben sia; ma la rimanente Italia? Qui dunque è la conquista, qui è l’ingrandimento. No, o signori, ricordate il mio concetto: quest’Italia, che era in potenza, doveva, voleva tradursi in atto; questa Dinastia, questo popolo subalpino furono scelti dalla Provvidenza a compiere la magnanima impresa, ch’era il voto, era il sospiro d’ogni parte d’Italia. Sì, o signori, quando fu fatto il gran giuro, ch’io vi ricordava di sopra, esso risuonò nelle cento, nelle mille italiane città, e lo ripetè ogni italiana terra dall’Alpi all’estremo mar della Sicilia.

A questa grand’opera, no, signori, non fu straniera nessuna parte d’Italia; e quando al magnanimo Re i popoli della rimanente Italia, tuttavia servi ed oppressi, mandarono il grido del loro dolore, mandarono un grido che stava nei loro petti da secoli, e consecrarono con esso una verità ch’era nell’animo, nelle menti di tutti.

Quindi, o signori, l’opera non è della nostra Dinastia, non del popolo subalpino soltanto; essa è di tutta Italia, perocchè tutti compresero questo gran còmpito; era un esercito, di cui una legione pugnava, le altre aspettavano l’ora della pugna; forse che tutto l’esercito non è glorioso del pari, e non lo è del pari ancora più quando, giunta l’ora della battaglia, questo esercito entra tutto nel grande conflitto?

Quindi, o signori, io escludo l’idea della dinastia, del diritto di nascita, del diritto di conquista; una sola è l’idea, è un’Italia in potenza, la quale voleva tradursi in atto; è un’Italia, la quale si tradusse in atto per la virtù dei Principi di questa Dinastia illustre, per la virtù dei popoli, non subalpini soltanto, ma dei popoli di tutta Italia: ecco la rivoluzione che ha fatta l’Italia.

Or dunque, se io raccolgo, per così dire, le sparse fila del mio discorso, mi pare che logicamente ognuno deve essere condotto a non guastare quest’opera, a non togliere al nome di Vittorio Emanuele la numerazione di II, numerazione di

quella serie gloriosa la quale iniziò, sino dall’antico Conte Verde, il principio dell’unità italiana, e, insieme a’ popoli tutti d’Italia, la portò al suo termine.

E l’onorevole Ferrari non diceva egli, poc’anzi, che, quando non gli è permesso andar troppo oltre nell’avvenire, egli torna, e gliene fo lode, al passato, egli torna a quegli studi, onde egli tanta dottrina attinse e sublimità di concetti? Non disse ancora che dal passato egli tragge argomento al futuro? Ebbene, o signori, se questo passato, dal giorno in cui il Conte Verde di Savoia scese dall’Alpi, da quel giorno sino ai giorni nostri, sino a Vittorio Emanuele II, fu un solo il pensiero di questa Dinastia, una sola l’aspirazione, il costituire l’Italia ad unità di nazione, siccome mi avviso di aver dimostrato, ebbene, in questo passato, io gli rispondo, egli rispetti quello che ora noi siamo; in questo passato egli riconosca il nostro risorgimento; e, se le tradizioni e le memorie sono fondamento e garanzia del futuro, voi vedete, o signori, che, anche dirimpetto all’onorevole Ferrari, la mia causa è vinta; perchè, per essere logico e conseguente a sè, egli non potrà togliere da questa Dinastia il titolo di II a Vittorio Emanuele, non potrà distrurlo in questa Dinastia, la quale fu, coi popoli d’Italia, la causa redentrice, l’attuazione, insomma, della grande unità italiana, di quella unità che era in potenza, e che infine si tradusse in atto.

Ecco, o signori, i pensieri dai quali io fui condotto quando vi proponeva che la formola degli atti pubblici portasse il nome di Vittorio Emanuele II. Così questa parola, o signori, sarà non pure nelle leggi, ma negli atti di tutta la vita politica e civile del popolo italiano, dal dorato palagio alla umile capanna, una sacra parola che fia per mantener viva la ricordanza d’una Stirpe, che per lunga serie di magnanimi Principi, e di magnanime gesta, consociata a’ suoi popoli, circondata dal loro amore e dalle loro virtù, ci condusse a questa gloriosa meta.

La seconda formola, e qui sarà più breve il mio discorso, si è per la grazia di Dio.

Già esposi nella mia relazione i motivi che mi vi hanno determinato; un giusto omaggio alla Divinità. Questa Italia quando loda Iddio, quando porge un omaggio alla Divinità non ripiglia il suo passato diritto pubblico, non ritorna a principii che devono essere obbliati per sempre, ma afferma come da Dio, che si vivifica continuamente in ogni opera sua, attinge il costante suo diritto, e rende al Dio delle nazioni il tributo della sua riconoscenza.

Pur sappiamo che di questa parola si è abusato; conosciamo le vecchie teorie del diritto divino. Ma di che non si abusò? Di quale virtù o di quale utile istituzione non si può abusare?

Che se noi risaliamo alla storia, vediamo come appunto quei principi posero in capo ai loro atti la formola per la grazia di Dio, i quali non riconoscevano autorità sulla terra a loro superiore; che di questa formola si valsero principalmente dopo l’epoca in cui le usurpazioni dei papi minacciavano la loro indipendenza, proclamandosi arbitratori supremi de’ principi e de’ popoli; incontro a questa pretesa intesero dichiarare e colla mentovata formola dichiararono altamente di non ripetere la propria autorità che da Dio e dalla loro spada.

E l’usarono, o signori, principi di popoli liberi; io vi cito l’Inghilterra. Quando Guglielmo III venne ad assidersi su quel trono, a patto giurasse di osservare la Costituzione del 1688, egli pose in capo a’ suoi atti la formola per la grazia di Dio, e nessuno se ne adontò. I dogi di Venezia l’usarono essi pure.