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tornata del 17 aprile


Il perchè, o signori, se noi miriamo al concetto proprio della formola, non vi vediamo che un omaggio reso al Dio della giustizia e della verità; se alle sue origini istoriche, noi vi vediamo consacrato un diritto imperituro, eterno, la indipendenza del principato da ogni soggezione terrena.

Ma dissero gli onorevoli Varese e D’Ondes, e qui io debbo dichiarare che le parole dell’onorevole D’Ondes io le intesi diversamente da quello che paresse all’onorevole Carutti; quando egli diceva: Qual è il Dio che invochiamo?.....

presidente. Non è il deputato D’Ondes che abbia profferito quelle parole.....

cassinis, ministro di grazia e giustizia. Il deputato Varese.....

Voci. Petruccelli della Gattina.....

cassinis, ministro di grazia e giustizia. Petruccelli. (Ilarità) Io queste parole le ho intese diversamente di quello le abbia intese l’onorevole deputato Carutti; io ho ravvisato in queste parole un concetto pressochè identico a quello dell’onorevole deputato Varese. Nessuna parola irriverente poteva pronunziarsi in questa Camera verso le sante cose, nè, a parer mio, si pronunciò. Ma che si disse? che si volle dire? Questo a me parve il concetto: anche sulla bandiera de’ tiranni, anche negli atti dimananti dall’autorità loro voi vedeste cotesta formola; ora dunque, quando diciate: per la grazia di Dio, avrete usata una formola, che era pur quella de’ principi, che l’Italia ha rigettato e rigetta.

Signori, l’obbiezione potrebbe essere grave se fossimo in condizioni diverse; ma altro è quando la bandiera è sostenuta dal voto di venti milioni di cittadini, altro è quando è sola in mano al timido e deserto tiranno. Quando il tiranno scrive per la grazia di Dio, egli scrive un’invereconda menzogna; ma quando lo scrive come Vittorio Emanuele II, e lo scrivono con lui venti milioni di cittadini, oh! permettetemi che io dica allora: la voce del popolo è la voce di Dio. (Vivi segni d’approvazione)

Ma l’onorevole Varese osservò ancora: ci si dirà che è una ipocrisia. Ma, signori, quale virtù fu esercitata mai che non possa essere imputata d’ipocrisia? Pure v’ha taluno a cui non si può imputare l’ipocrisia; e a chi? A chi non ha paura, e l’Italia non ha paura; ella professa i suoi principii francamente, altamente e lealmente; adora Dio perchè lo sente, perchè lo crede, perchè ha la religione nel proprio petto. Non temete l’ipocrisia, signori; si dirà che l’Italia vuole la libertà, che vuole l’indipendenza, ma che adora Dio, e la religione ha altamente nel petto. (Benissimo!)

Non voglio, signori, abusare più oltre dei preziosi momenti della Camera. L’ultima formola non richiede da me nemmeno una parola; la volontà del popolo, io l’ho detto, essa è una grande verità, essa è la voce di Dio!

Conchiudo: non togliete, o signori, a Vittorio Emanuele il suo nome qual è: Vittorio Emanuele II.

È Vittorio Emanuele II che disse ai popoli tutti d’Italia viventi ancora sotto il servaggio: ho inteso i gridi del vostro dolore; e snudò con quel nome la gloriosa sua spada, ed arrischiò la sua vita nelle battaglie di Magenta, di Palestro, di San Martino; egli è quel Vittorio Emanuele che fu salutato col nome di II dall’esercito e dall’eletta schiera dei volontari. Con questo nome egli si slanciò contro le nemiche schiere; oh! non isvelletelo da’ suoi maggiori, non isvelletelo da quel Magnanimo che lasciò esule la vita in Oporto; non isvelletelo dal padre suo; non isvelletelo dalle grandi memorie degli avi suoi. Questa è, ne sono convinto, o signori, la volontà di tutti i popoli d’Italia. Consentite, oh! sì consentite che sopra gli atti solenni della vita politica e civile degli Italiani stiano scritte

le formole da me proposte, ed abbiano così nuova, solenne e vera consacrazione gli alti principii ch’esse racchiudono ed esprimono. (Segni d’approvazione)

presidente. Ha facoltà di parlare il deputato Crispi.

crispi. Al punto nel quale è giunta la discussione, poche cose restano a dirsi. E le dirò, dappoichè l’onorevole guardasigilli è ritornato alla difesa della legge presentata al vostro giudizio, ed affinchè non resti completamente senza risposta l’eloquente suo discorso.

Signori, io sono contrario alla formola proposta, giacchè, me lo permetta il guardasigilli, questa formola è semi-feudale, è paurosa, è incerta. È la formola di un regno che non è il nostro; di un regno che teme distaccarsi dalle tradizioni del passato, e che non osa risolutamente lanciarsi nell’avvenire.

Quindi è indegna dell’augusto soldato di Palestro e San Martino, che dedicava vita e corona al trionfo di una magnanima idea; è indegna di un gran popolo, che si rialza con miracoli di audacia e con potenza di sacrifizi dalla tomba in cui l’avevano cacciato i tiranni indigeni e stranieri.

Tale essendo la mia opinione, anch’io analizzerò questa formola. Lo farò brevemente.

Vittorio Emanuele II Re d’Italia.

Signori, io non mi meraviglio che si stia questionando sul numero d’apporre al nome del Re, mi meraviglio bensì che gli si voglia apporre un numero.

Carlo Magno, Napoleone e tutti i fondatori di dinastie, non iscrivevano sulle loro leggi e sui loro decreti che semplicemente il loro nome. Soli i successori, avendo bisogno di provare un’augusta origine e di ripetere i loro diritti dalla storia, pensarono alla numerazione, e ciò perchè ne venisse ai medesimi l’autorità delle tradizioni sui popoli soggetti.

Ebbene, checchè ne dicano i difensori della legge, Vittorio Emanuele è il capo della Dinastia dei nuovi Re d’Italia. È un caso che egli sia figlio di Re.

Giuridicamente, qual Re d’Italia, egli non ha nulla a fare coi conti della Moriana e coi principi di Piemonte, i quali talora furono vicari degli imperatori di Germania; non ha nulla che fare con Vittorio Emanuele I, il quale ritornava dall’isola di Sardegna nelle provincie di terraferma mercè il sussidio delle baionette straniere; non ha nulla a fare con Carlo Felice, ultimo del ramo primogenito di Casa Savoia, il quale, nel 1821, fu nel campo degli Austriaci a combattere l’unità d’Italia.

Signori, diciamo le cose come sono; non cerchiamo titoli che non ci appartengono; non facciamo come i nobili decaduti, i quali, in difetto di virtù proprie, vanno a cercarle negli archivi, diseppellendo le pergamene dei loro avi.

La monarchia chè avete fondato non ha precedenti nella storia. Essa non somiglia a nessuno dei regni d’Italia stati decretati dalla conquista; regni angusti, spesso nominali, che non abbracciarono mai la totalità della Penisola, che non ebbero mai a base della loro autorità un plebiscito come quello del 21 ottobre 1860, il quale dichiara solennemente l’unità e l’indivisibilità della terra italiana.

Per servirmi delle parole dell’onorevole guardasigilli, dirò anch’io che la monarchia ha la sua genesi nella rivoluzione. E, per trovare la genesi di questa rivoluzione, io non andrò così a lungo, come ha fatto l’onorevole ministro, per cercarla al di là del nostro secolo.

La rivoluzione italiana, signori, scoppiò in Palermo il 12 gennaio 1848; essa percorse la Penisola dall’estrema Sicilia insino alle Alpi. Questa rivoluzione ha rovesciato in pochi anni tutti i poteri costituiti, ha spezzato le corone di quattro dinastie, ha affermato al cospetto del mondo il diritto d’una
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