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ornato con piume. La terza figlia del re Lear — la ragazza di sedici anni — porta i capelli sciolti con sopra una corona di fiori di carta. Le Ebree anziane mangiano qualche cosa prima che il si pario si alzi. Passa Hocmach.
Hocmach entra di corsa sul palcoscenico, ma il sipario è ancora abbassato.
Il castello del re Lear.
Da un lato del palcoscenico c’è il trono di re Lear. Sopra ci sono ventagli giapponesi e foto grafie familiari di alcuni sconosciuti, per la maggior parte militari. Di fronte al pubblico c’è un armadio con scritti ebraici. In simili armadi nelle sinagoghe si conservano i Torà. Hocmach suona il campanello e osserva il pubblico attraverso una fessura.
Terza fila in platea. Il pubblico è composto da gli abitanti della piccola città di Galizia. Ci sono i chasid, vecchi in parrucche brune e papaline; giovani con basette e giovani Ebree, floride strette nei loro busti. Ci sono pure molti bambini. Un terzo del pubblico è costituito da neonati. I ragazzi strillano, piangono e dormono. Uno dei neonati crea particolari preoccupazioni. Improvvisamente però si calma. Il suo viso assume un’espressione attenta e assorta. Però il vicino della madre scatta su dal suo posto arrabbiatissimo. Le mostra la sua giacca bagnata e il lago sotto la sua sedia. La signora porta via il bambino.
Per tutta la lunghezza del teatro e del foyer la signora porta il bambino tenendolo con le braccia tese e per tutto il tempo il bambino piange e fa la pipi. La signora corre sul balcone e lo mette a sedere sulla ringhiera, alto, sopra la città immersa nella nebbia.
Hochmach continua a osservare il pubblico. Nel frattempo gli si avvicina l’amministratore del teatro.
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