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Pagina:Bartoli - Dell'uomo di lettere II.djvu/48

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48 dell’uomo di lettere

minore gloria fluere1. Non soffrono, che scemino d’una stilla, che calin d’un’apice i loro componimenti. Parrebbero loro mostruosi, se fossero tronchi; essendo veramente mostri con essere interi.

MALDICENZA

8.

Inclinazione del genio, e mal’uso dell’ingegno
nel dir male d’altrui.

Chi già mai crederebbe, che il dir male d’altrui fosse cosa sì dolce, che chi una volta l’assaggia ne resta sempre con voglia? e come i Lioni, che s’hanno leccato una vece il sangue su l’ugne, ne sono poi sempre bramosi parimenti a chi gusta i primi sapori del dir male ne resta d’ordinario sì ingorda la voglia, che v’ha di quelli, che si contentano d’esser senza lingua più tosto che senza motti, e lasciano più facilmente di vivere che di mortificare. La vecchiaja (quando vi giungono), ancorchè tolga loro molte volte il senno dal capo, non toglie però mai le punture dalla lingua aguzza; a guisa de’ vecchi spinai, a’ quali il freddo verno fa cadere le foglie ma non le spine, l’ornamento ma non l’asprezza.

Questi, per lo più acuti d’ingegno ma solo per pungere, mai non dicono meglio che quando dicono peggio, mai non isplendono più che quando più abbruciano. Tutte le pruove de’ loro ingegni sono motti e argutezze pungenti: e per riuscir più mordaci, faticano coll’ingegno più che quel famoso Oratore per esprimere e scolpire dispetto della scilinguata sua lingua la lettera R, lettera mordace e canina.

Udirli, come un Menippo, un Zoilo, un Momo, motteggiare d’altrui, (sì ingegnosamente lo fanno!) è udire una musica; ma una musica quale fu quella, che Pitagora osservò, fatta a battuta di fiere percosse, e a colpi

  1. Tacit.