Pagina:Bartoli - Dell'uomo di lettere II.djvu/48

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minore gloria fluere. Non soffrono, che scemino d’ una stilla, che calin d’ un’ apice i loro componimenti. Parrebbero loro mostruosi, se fossero tronchi; essendo veramente mostri, con essere interi.


Inclinazione del genio, mal’ uso dell’ ingegno nel dir male d’altrui.


Chi già mai crederebbe che il dir male d’ altrui, fosse cosa sì dolce, che chi una volta l’ assaggia ne resta sempre con voglia? e come i Lioni, che s’ hanno leccato una vece il sangue su l’ ugne, ne sono poi sempre bramosi; parimenti a chi gusta i primi sapori del dir male ne resta d’ ordinario sì ingorda la voglia, che v’ ha di quelli che si contentano d’esser senza lingua più tosto che senza motti, e lasciano più facilmente di vivere che di mortificare. La vecchiaja (quando vi giungono), ancorché tolga loro molte volte il senno dal capo, non toglie però mai le punture dalla lingua aguzza; a guisa de’ vecchi spinai, a’ quali il freddo verno fa cadere le foglie ma non le spine, l’ ornamerito ma non l’asprezza.

Questi per lo più acuti d’ ingegno ma solo per pungere, mai non dicono meglio che quando dicono peggio, mai non isplendono più che quando più abbruciano. Tutte le pruove, de’ loro ingegni sono motti e argutezze pungenti: e per riuscie più mordaci, faticano coll’ ingegno: più che quel famoso Oratore per esprimere e scolpire a dispetto della scilinguata sua lingua la lettera R, lettora mordace e carina.

Udirli, come un Menippo, un Zoilo, un Momo, motteggiare d’altrui, (sì ingegnosamente lo fanno!) è udire una musica; ma una musica quale fu quella, che Pitagora osservò, fatta a battuta di fiere percosse, e a colpi