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120 capitolo vi.


Inutilmente cercammo di contenere il nostro bagaglio al posto destinatogli. Oltre il carico dei serbatoi, portavamo provviste supplementari di olio e di benzina, fasci di gomme, viveri per dieci giorni, e reputavamo imprudente rinunziare a qualche cosa. Il bagaglio invase anche il sedile posteriore. Convenimmo di viaggiare tutti e tre sulla parte anteriore dell’automobile, due nei sedili e il terzo ai loro piedi, assiso a sinistra sul piano della carrozzeria con le gambe appoggiate al montatoio. La posizione del terzo non era estremamente comoda, ma ci saremmo dati il cambio. E fu Ettore la prima vittima. Erano le due del pomeriggio quando ci mettemmo in cammino, dopo una rapida colazione a base di corned-beef. Il principe guidava. Le altre automobili ci seguivano.

Pietro era già partito per essere a Kalgan prima della chiusura delle porte. Ci aveva salutati, e ci aveva effusamente ringraziati nel suo più fiorito linguaggio, quasi che gli avessimo fatto il massimo regalo portandolo ad un trecento chilometri da Pechino. Poi era scomparso verso la Gran Muraglia seguito dai coolies.

Percorremmo la valle fino allo sbocco, ed entrammo nella pianura. Le colline si riunivano allontanandosi dietro di noi, e formavano come una riva. Avevamo veramente l’impressione profonda di lasciare una riva. Salpavamo.

Ai primi passi facemmo una constatazione dolorosa: il soverchio carico forzava talmente le molle posteriori, che al più piccolo sobbalzo dell’automobile lo chassis batteva pesantemente sull’asse del differenziale. Bisognava andare lentamente, ma il terreno era ineguale, e i colpi succedevano, violenti:

— Rompiamo le molle o rompiamo il differenziale! — esclamò Ettore al quale i colpi pareva battessero sul cuore.

— Non v’è pericolo immediato — rispose il Principe che giudicava con freddezza — ma l’automobile non potrebbe resistere a lungo. È necessario alleggerirla.

— Subito.

— No, alla prima tappa. Non andremo lontano.