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urga 207


tarci giudicando da i punti cardinali e ricercando le imperfette indicazioni della carta, ci rassegnavamo con buona grazia. «Meglio questo che affondare!» — ci ripetevamo a guisa di consolazione. Il pericolo corso nel pantano ci aveva conferito delle virtù nuove.

La macchina si arrampicava con facilità sulle salite più scoscese. Alle dieci ci trovammo sulla vetta d’un’alta collina, e ci fermammo per ammirare un paesaggio meraviglioso. Dietro a noi un digradare agitato di verdi colline andava a spegnersi nella gran valle del Tola, azzurra, luminosa. Non si scorgeva più Urga, nascosta nel rovescio delle ultime alture lontane, ma, quasi per segnare la sua posizione, per indicare al devoto viaggiatore lamista ove rivolgere il suo sguardo ansioso di scoprire la sacra residenza del vivo Buddha, una pagoda bianca si affacciava da una vetta e pareva scintillare al sole. Dei cavalieri mongoli, dall’aspetto di soldati, avevano messo piede a terra, e guardavano anch’essi verso Urga. Noi li distogliemmo dalla contemplazione col nostro moto che rendeva irrequieti i loro cavalli. Riprendemmo la corsa velocemente.

Ogni medaglia ha il suo rovescio. Quella collina, che ci aveva offerto uno spettacolo così pittoresco, ci presentò un rovescio disastroso. Il sentiero scendeva precipitosamente in linea retta dalla sommità alla base; era ingombro di pietre, di ciottoli, di sassi, e s’inclinava tutto a sinistra bordeggiando un burrone. Ettore, che guidava, strinse di colpo i due potentissimi freni della macchina e levò la trasmissione. La vettura strisciò per alcuni metri, con le ruote motrici quasi immobili, sobbalzando su ciottoli, finchè impuntò su delle grosse pietre e si fermò. I freni furono gradatamente allentati, ma la macchina non si mosse.

— Bisogna togliere i sassi avanti alle ruote — osservò Ettore.

Il Principe ed io scendemmo per compire questo lavoro. Ma i sassi erano fortemente piantati nel suolo e non riuscivamo a smuoverli.