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338 capitolo xv.


Arrivò mezzodì. Il cantoniere infilò il cappotto, si mise il berretto, staccò dal muro l’asta dei segnali, ed uscì fuori. Sua moglie corse a chiudere i cancelli del passaggio a livello, e poco dopo un lungo treno passò velocemente facendo fremere i vetri della finestra e sussultare la casa. Veniva da Kainsk. Il guardiano rientrò, si tolse cappotto e berretto, caricò la pipa, e ci disse:

— Il tempo non cambia.

— Ma è sempre così l’estate in Siberia? — gli chiedemmo.

— A memoria d’uomo non s’è vista un’estate così. Da due mesi piove quasi continuamente. Mai di luglio s’è avuto tanto freddo e tanta acqua. I lavori campestri sono impossibili. Nel governatorato di Jenisseisk molti raccolti sono perduti. Avremo un inverno di fame in questa parte della Siberia!

Non potevamo restare indefinitivamente a veder passare dei treni e a fumare sigarette vicino ad una stufa. Dovevamo pure trovare qualche mezzo per superare quella maledetta terra nera: un modo ingegnoso per impedire alle ruote di scivolare. Il problema era tutto lì. Con quelle strade ci sarebbero volute delle ruote dentate. Ettore uscì fuori e si mise a lavorare intorno alla macchina. Doveva avere qualche progetto. Era l’uomo dalle risorse. Lo vedemmo infatti prendere le catene dei paranchi, e attorcigliarle intorno alla gomma della ruota motrice sinistra. L’idea era genialissima, e l’applaudimmo.

— Proviamo, adesso! — esclamò il bravo meccanico riabbassando al suolo la ruota incatenata che aveva sollevato con la binda.

— Proviamo!

Balzammo sui nostri sedili, e via. Pochi minuti dopo eravamo in vista del nemico. L’automobile attaccò velocemente la salita che ci aveva tante volte respinti. Verso la metà la macchina ebbe un istante d’incertezza. Ma fu un istante; la catena raspava il suolo come un artiglio, arrivava al duro, si aggrampava palmo a palmo. Giungemmo in cima, e non ci fermammo