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354 capitolo xvi. 353


loro aiuto, adoperando le tavole cadute, potemmo rapidamente costruire una passerella, e proseguire il cammino dopo pochi minuti.

Alle cinque di sera attraversavamo sopra una chiatta, avanti alla città di Marinsk, il Kija. Con tutte le sue arie da gran fiume il Kija non è che un tributario del Tschet, che è un tributario del Tschulym, che è un tributario dell’Obi. Si trattava proprio di un fiume valvassore; ma era in piena, e ci parve rispettabile. L’altra riva era gremita dalla popolazione. Avanti a tutti il Pristaf, un bel vecchio decorato della croce di S. Andrea, il quale ci accolse e ci salutò solennemente, e dopo averci dato il benvenuto, ci pregò di andare adagio nell’interno del paese, molto adagio. Borghese lo rassicurò: non sarebbero avvenute disgrazie.

— No, no; lo so. — disse il Pristaf con un sorriso cerimonioso. — Vi raccomando di andare adagio soltanto perchè i miei amministrati possano ammirarvi con tutto comodo.

La raccomandazione della paterna autorità era affatto inutile, perchè le vie di Marinsk si trovavano in tali condizioni da costringerci ad un’andatura processionale e solenne. La folla ci circondava, i ragazzi in prima linea; e tra la folla a piedi trottavano iswoshchik portanti la parte aristocratica della popolazione, e uomini a cavallo. Fummo accompagnati in una Zemstwoskaya Dom, una di quelle case che hanno il dovere di accogliere i funzionari in viaggio nei paesi dove manca l’albergo. La casa era decente, gli ospiti si mostrarono premurosi, il pranzo fu discreto. La polizia rintracciò la nostra benzina, e la macchina ebbe rifornimento e riposo sotto un grande hangar attiguo alla casa.

La folla rimase a guardare per qualche ora le nostre finestre aspettando chi sa quale sorpresa, poi si dissipò lentamente.

Dalla mattina alle tre e mezza, fino alla sera alle cinque e mezza, cioè in 14 ore continue di marcia assidua, avevamo percorso 160 chilometri. Meno di undici chilometri e mezzo all’ora.

È vero che il giorno dopo dovevamo correre anche meno.