Pagina:Barzini - La metà del mondo vista da un'automobile, Milano, Hoepli, 1908.djvu/417

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tomsk la dotta 359


Passavamo di slancio i fossati, temendone il fondo sommerso nella mota; allora l’automobile si rizzava con le ruote anteriori sollevate, e si abbatteva in iscorcio. In uno di questi salti udimmo una lacerazione metallica. La parte posteriore dell’automobile aveva battuto sul suolo con tanta forza che il serbatoio della benzina, strisciando a terra ne aveva avuto la fodera di ferro schiavata, strappata via come una buccia d’arancio. Per lunghe ore tacevamo. Una prima vaga ombra di dubbio passava sulle nostre speranze di vittoria.

Avevamo avuto fino allora l’illusione che ogni difficoltà, ogni pericolo che si presentava fosse l’ultimo. Credevamo di aver cominciato dal peggio; ci sembrava che andando avanti tutto dovesse essere più facile. Ci accorgevamo allora che gli ostacoli aumentavano sempre più. Non avevamo mai trovato una strada tanto cattiva, ed eravamo appena nel mezzo della Siberia. Ogni giorno, senza concederci un momento di riposo, per sedici, per diciotto ore continue lavoravamo instancabilmente a superare meschine distanze. Avremmo continuato con tenacia e con ostinazione a prodigare ogni nostra energia: ma sarebbero bastate la nostra forza, la nostra volontà? L’automobile, avrebbe essa resistito ad una fatica per la quale non era stata creata? La macchina sembrava intatta ancora, ma la carrozzeria, negli urtoni e nei sobbalzi, s’era spaccata, allentata nelle sue parti, oscillava tutta; sentivamo sotto i nostri piedi il disgregamento delle tavole schiodate, i serbatoi parevano minacciare di separarsi dai sedili. Io chiesi a Borghese:

— Si può continuare a lungo così?

— No — mi rispose.

— Per quanto ancora l’automobile può resistere a questa strada?

— Per cinquecento chilometri al massimo.

In quegl’istanti di scoraggiamento eravamo persuasi che ci aspettassero migliaia di chilometri di sentieri così cattivi. Era dunque finita!