Pagina:Barzini - La metà del mondo vista da un'automobile, Milano, Hoepli, 1908.djvu/87

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verso la grande muraglia 45


ventaglio chiuso sul palmo della mano. Più oltre chiedevamo:

— Quanto è lontano Tsing-ho-pu?

Questa non è una domanda che in Cina possa avere una risposta unica.

— Cinque li! — ci gridava un vecchio mostrandoci le cinque dita della mano aperta.

Ma un suo vicino, con la stessa mimica, levava tre dita sole. E un altro esclamava convinto:

— Otto li! — Tre, cinque, o otto? — domandavamo con una certa impazienza fermando l’automobile.

I nostri informatori arretravano d’un passo per misura di prudenza, e con un sorriso cerimonioso ci auguravano un felice viaggio.

Al fiume Tsing-ho, ci troviamo di fronte alla prima difficoltà. L’antico ponte che lo attraversa è quasi inaccessibile all’automobile. Cerchiamo un guado, percorriamo la riva per tutti i versi sperando di trovarvi i segni d’un passaggio frequentato. Niente, non v’è che una strada: quella del ponte.

È un ponte monumentale, uno di quelli che la tradizione europea attribuisce all’opera di Marco Polo; ma che forse non risale che ai Ming; un magnifico lavoro d’arte, tutto di marmo. I parapetti scolpiti, d’una eleganza che ha dell’europeo e che potrebbe giustificare la tradizione, uniscono graziosamente le due rive, formano un arco di ricchezza singolare, una superba cèntina bianca, una traccia di fasto, isolata nella primitiva rozzezza d’un paese che ha dimenticato la sua antica passione del bello e del grande. Enormi tavole di marmo formano la pavimentazione del ponte; ma il traffico le ha logorate e spezzate, il tempo le ha sconnesse. Sembra quasi che un lento moto della terra abbia nei secoli sconvolto quelle lastre tentando di sollevarle come dei coperchi di tomba. Il ponte si direbbe non sia stato più toccato da mani di artefice da quando Pechino si chiamava Khan-baligh, “Città del Khan„, e Marco Polo la chiamava Cambaluc. Con