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176 la montagna delle folgori


fili, crea induzioni fantastiche per le quali in certi momenti si odono al telefono conversazioni ignote, scherza o perseguita, tramortisce plotoni interi, divora le scarpe ad una sentinella, fa esplodere le cartucce nelle giberne, passa con saettamenti fragorosi da roccia a roccia, da parete a parete, e accende per tutto chiarori di prodigio, aureole miracolose, faci magiche.

È sopra tutto nelle lunghe ore tenebrose che la procella, che l’inesplicabile si manifesta. Pare che nella minaccia della tempesta la montagna si animi di folletti e di gnomi. Gli uomini ammutoliscono, soggiogati; si sentono minuscoli e inermi, e aspettano rassegnati la formidabile e gigantesca battaglia delle saette.


Ero asceso da Caporetto a Drezenca, ultimo gregge di abitazioni umane alle pendici del monte. Dalle invisibili stazioni superiori delle teleferiche, che parevano allacciate col cielo, scendevano ad uno ad uno distesi nei piccoli carrelli emergenti dalle nubi, dei soldati feriti dal fulmine nella nottata. E la vetta tuonava sempre. Potrò vedere mille volte il Monte Nero campato nell’azzurro del più limpido sereno, ma io non lo ricorderò che nel suo aspetto più caratteristico e pauroso, tutto velato, tenebrato, avvolto dal temporale, ruggente, palpitante di fulgori, favoloso.

Dalle sue pendici, per infiniti serpeggiamenti