Pagina:Berchet, Giovanni – Poesie, 1911 – BEIC 1754029.djvu/393

Da Wikisource.

Lá poi giunta, la nobil Signilda altro disse e di lode ben degno: — Oggi io stessa do fine a’ miei giorni ; e re Abore su in ciel lo rinvegno. E se v’è chi a re Abor pensò morte, se la trista è tra noi in questo loco, io vendetta ne fo incontanente: con me insieme il consumi un sol fuoco. E in castel tra i baroni v’ ha molti cui il morire d’Abor fa contenti: or ben io ne torrò qui vendetta sulle lor fidanzate avvenenti. — Alla camera il fuoco ella ha messo, e di tratto ogni dove è in fiammore; e può ogni uomo veder manifesto lei far buona mostranza d’amore. Sulla spalla gettando un’occhiata, ver’ Signilda il re giovane guarda; lá in castel lo stanzon delle donne tutto in fiamme ved’egli com’arda. — Giú calate la cappa mia rossa e sul prato rimanga in oblio: avess’io dieci vite anzi ch’una, non vorrei mendicarle or per Dio ! — Al verone s’affaccia re Svardo, contristato da assai dubitanze: pender lá vede Abor dalla quercia, arder qui di Signilda le stanze. Il paggino in giubbello scarlatto a far motto correva li in quella: — Nelle fiamme è la nobil Signilda e ogni vaga con lei damigella. — Questo allora usci detto a re Svardo, mentre ch’ei dal veron si rimosse: — Mai due figli di re non vid’ io sorte aver che si misera fosse.