Pagina:Bianchi-Giovini - Biografia di Frà Paolo Sarpi, vol.1, Zurigo, 1846.djvu/241

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capo xii. 233

in sul momento. Alle feroci parole succedevano opere corrispondenti: mandavano emissari e spie e subornatori, scrivevano alle loro penitenti che negassero il debito ai mariti, agli allievi che disobbedissero i genitori: e in questa infausta contesa è il maggior torto della corte di Roma di avere licenziato simili orrori, colla speranza che sconvolto l’ordine pubblico e tumultuanti i sudditi Venezia sarebbe obbligata a sottomettersi: speranza colpevole, imperciocchè, prescindendo da tutte le opinioni, associare la religione al delitto è peccato enorme, inespiabile.

Ma nello Stato veneto tutto era tranquillo, nè mancavano i predicatori, per lo più frati audaci; tra i quali si fece distinguere un Padre Fulgenzio Manfredi francescano, che predicò in Venezia con molta veemenza contro l’interdetto e la Corte. E innumerevoli furono gli scrittori, perocchè chiunque sapeva bene o male menare la penna volle entrare in lizza, onde convenne al governo, a prevenire che o la foga o la inesperienza facessero trascorrere oltre i termini, instituire apposita censura di sei teologi e tre giureconsulti per esaminare i libri, e due senatori per approvarli. Primi fra gli esaminatori e capi di quel consiglio censorio erano Frà Paolo e Pietro Antonio Ribetti arcidiacono e vicario generale di Venezia.

Il sistema del governo veneto era di attenersi ai termini di pura difesa, e però non lasciò libertà ai predicatori se non dopo che altri predicatori parlarono contro di lui; e non la lasciò a’ scrittori, se non dopo che i Romani scrissero contro Venezia.