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Pagina:Boccaccio - Decameron II.djvu/16

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10 giornata sesta

[III]

Monna Nonna de’ Pulci con una presta risposta al meno che onesto motteggiare del vescovo di Firenze silenzio impone.


Quando Pampinea la sua novella ebbe finita, poi che da tutti e la risposta e la liberalitá di Cisti molto fu commendata, piacque alla reina che Lauretta dicesse appresso; la quale lietamente cosí a dir cominciò:

Piacevoli donne, prima Pampinea ed ora Filomena assai del vero toccarono della nostra poca vertú e della bellezza de’ motti; alla qual per ciò che tornar non bisogna, oltre a quello che de’ motti è stato detto, vi voglio ricordare, essere la natura de’ motti cotale, che essi, come la pecora morde, deono cosí mordere l’uditore, e non come il cane, per ciò che, se come il cane mordesse il motto, non sarebbe motto ma villania. La qual cosa ottimamente fecero e le parole di madonna Oretta e la risposta di Cisti. È il vero che, se per risposta si dice, ed il risponditore morda come cane, essendo come da cane prima stato morso, non par da riprender come, se ciò avvenuto non fosse, sarebbe: e per ciò è da guardare e come e quando e con cui e similmente dove si motteggia. Alle quali cose poco guardando giá un nostro prelato, non minor morso ricevette che il desse; il che io in una piccola novella vi voglio mostrare.

Essendo vescovo di Firenze messere Antonio d’Orso, valoroso e savio prelato, venne in Firenze un gentile uom catalano chiamato messer Dego della Ratta, maliscalco per lo re Ruberto, il quale, essendo del corpo bellissimo e vie piú che grande vagheggiatore, avvenne che tra l’altre donne fiorentine una ne gli piacque la quale era assai bella donna, ed era nepote d’un fratello del detto vescovo. Ed avendo sentito che il marito di lei, quantunque di buona famiglia fosse, era avarissimo e cattivo, con lui compose di dovergli dare cinquecento fiorin d’oro,