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dilibero; il che a non piccola gloria mi reco, potendo dire che io sola sia colei, che viva abbia sostenute più crudeli pene che alcuna altra. E con questa gloria, fuggita sì come somma miseria da ognuno e da me, se io potessi, al presente in cotale guisa quale udirete il tempo malinconosa trapasso.
Dico adunque che ne’ miei dolori affannata gli altrui ricercando, primieramente gli amori della figliuola d’Inaco, la quale io morbida e vezzosa donzella primieramente figuro, quindi la sua felicità, sentendosi amata da Giove, con meco penso: la qual cosa ad ogni donna per sommo bene senza dubbio dovria essere assai; quindi lei trasmutata in vacca e guardata da Argo ad instanzia di Giunone rimirandola, in grandissima ansietà oltremodo essere la credo. E certo io giudico li suoi dolori li miei in molto avanzare, se ella non avesse avuto continuamente a sua protezione l’amante iddio. E chi dubita, se io il mio amante avessi aiutatore ne’ danni miei, o pure di me pietoso, che pena niuna mi fosse grave? Oltre a ciò il fine di costei fa le sue passate fatiche levissime, però che, morto Argo, con grave corpo leggierissimamente trasportata in Egitto, e, quivi in propria forma tornata e maritata ad Osiri, felicissima reina si vide. Certo se io potessi sperare pure nella mia vecchiezza rivedere mio il mio Panfilo, io direi le mie pene non essere da mescolare con quelle di questa donna; ma solo Iddio il sa se essere dee, come che io con isperanza falsa me stessa di ciò inganni.
Appresso costei, mi si para davanti l’amor della sventurata Biblìs, la quale ogni suo bene mi pare vederli lasciare, e seguitare il non pieghevole Cauno. E