Pagina:Boccaccio - Filocolo di Giovanni Boccaccio corretto sui testi a penna. Tomo 1, 1829.djvu/332

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il suo letto così cominciò a dire: O graziosissima Citerea, ove è la tua pietà fuggita? Oimè, come tante lagrime di me, tua fedelissima suggetta, non ti muovono ad aiutarmi? Chi spererà in te, se io, che più fede t’ho portata, per te perisco? E quando verrà il tuo soccorso, se nelle miserie non viene? Io non posso peggio stare che io sto. O misera a me, che feci io che io meritassi d’essere venduta? Or m’avesse avanti il re uccisa con le propie mani: almeno il termine de’ miei dolori sarebbe finito! Deh, pietosa dea, quand’io altra volta temetti di morire, tu da quel pericolo mi campasti: perchè ora più grave t’è in questo bisogno aiutarmi? Io mi diparto dal mio Florio, nè so quali paesi fieno cercati da me: e se io credessi propiamente i tuoi regni venire ad abitare, e’ mi sarebbero noiosi sanza Florio. Dunque comanda che come la saetta del tuo figliuolo con dolcezza mi passò il cuore per la piacevolezza di Florio, a me tornata in grave amaritudine, che ella mi si converta in mortal piaga, e tosto. Non consentire che io più viva languendo. Muovanti tante lagrime, quante io mando nel tuo cospetto, a questa sola grazia concedermi: e se a te forse la mia morte non piace, riconfortimi la seconda volta il tuo santo raggio, il quale nella oscura prigione, ov’io per adietro a torto fui messa, mi consolò faccendomi sicura compagnia. Io vo sanza alcuna speranza, se da te non m’è porta. Deh, non mi lasciare in tanta avversità disperata, ma sì come il tuo pietoso Enea negli africani liti, a’ quali io, più ch’io non disidero, già m’appresso, riconfortasti con trasformata imagine, così di me ti dolga, e fammi degna del tuo soccorso. A te niuna cosa s’occulta, il mio