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SOPRA DANTE | 103 |
da d’intorno, e quasi in parte alcuna non si rende sicuro, credendo dalla coscienza sua medesima accusato. Dico adunque, la lupa essere famelico e bramoso animale, e quel medesimo essere l’uomo avaro; perciocchè quantunque l’uomo avaro abbia quello che gli bisogna onestamente e in qualunque guisa ragunato, forse con molta sollecitudine e gran suo pericolo, non sta a quel contento, ma da maggior cupidità acceso, e da nuova sete stimolato, in ciascun suo esercizio più che mai si mostra affamato: per sodisfare a questa insaziabile fame, niun pericolo è, niuna disonestà, niuna falsità, o altra nequizia nella quale non si mettesse. Per la qual cosa Virgilio nel terzo dell’Eneida, fieramente la sgrida dicendo:
— — — — — Quid non mortali a pectora cogis, Auri sacra fames?
Secondariamente il vizio dell’avarizia si mette in uomini cattivi e pusillanimi, il che appare, in quanto in alcun valente uomo o magnanimo non si vede giammai; e che essi sieno così, le loro operazioni il dimostrano. Metterassi l’avaro in una piccola casetta, e in quella in continua dieta, per non spendere, dimorando senza muoversi, dieci e venti anni presterà ad usura, vestirà male e calzerà peggio, rifiuterà gli onori per non onorare: e dove egli dovrebbe de’ suoi acquisti esser signore, esso, diventa de’ suoi tesori vilissimo servo: e quanto maggiore strettezza fa del suo, tanto tien gli occhi più diritti all’altrui. Sempre è pieno di rammarichii, sempre dice sè esser povero, e mostrasi: e brevemente, facendosi de’ beni