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LIBRO OTTAVO | 301 |
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E se non fosse ched egli fu atato
Da’ suoi avversi, il caval l’uccidea;
A cui di bocca appena fu tirato,
E tratto fuor della crudel mislea,
E senza alcuno indugio disarmato
Per Arcita, che l’arme sue volea
Per offerirle a Marte, se avvenesse
Ch’a lui il dì il campo rimanesse.
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Se Palemone allora fu cruccioso,
Soverchio qui saria a raccontare,
E però di narrarlo mi riposo,
Ottimamente il può ciascun pensare:
Egli era alla sua vita invidïoso,
E quasi si voleva disperare:
E ben si crede del tutto perduta
Aver d’Emilia la speranza avuta.
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Essa a ciò riguardava assai dolente:
E sappiendo qua’ patti eran fra loro,
Già d’Arcita credendo veramente
Esser l’animo suo, senza dimoro
A lui voltò, e divenne fervente
Dall’amor d’esso; e già per suo ristoro,
Per lui vittoria pietosa chiedea,
Nè più di Palemon già le calea.