Pagina:Boccaccio - Ninfale fiesolano di Giovanni Boccaccio ridotto a vera lezione, 1834.djvu/218

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48 a messer francesco

suetudine d’uomo e non di bestia, e assai dilicatamente vivere, siccome noi Fiorentini viviamo; vedevano ancora la casa e la masserizia mia, secondo la misura della possibilità mia, splendida assai. Vivono molti di questi, e insieme meco nella vecchiezza cresciuti, in dignità sono venuti. Non voleva, s’io avessi potuto, che, volendo essi continuare l’amicizia, ch’eglino m’avessono veduto dissorrevolmente vivere a modo di bestia, e che ciò avvenire per mia viltà pensassono. Forsechè tu dirai: queste essere femminili ragioni, e non convenirsi ad uomo studiante. Confesso essere delle femmine le dilicatezze, e così essere degli animali bruti brutamente vivere. In tutte le cose si vuole aver modo: io veggio gli uomini nobili osservare quelle cose che io domando; e intra i grandissimi e singulari il mio Silvano1, l’orme del quale, quanto posso, discretamente seguo. Se tu danni lui, poco mi curerò se tu me danni.

Queste cose a me spesse volte promesse, perocchè solamente una volta non m’erano date, ed io quelli allettamenti sofferire non potessi, sono costretto di tornare alla liberalità del nobile giovane cittadino nostro Mainardo de’ Cavalcanti, consapevole; e spessissimamente di ciò pregando, lasciata la Sentina, da lui con lieto viso sono a tavola e ad albergo ricevuto. E non dubito che per la Dio grazia e per la sua operazione e viverò e sarò sano. Ancora il fratello mio, benchè non molto in costumi vaglia, non potendo sofferire quei fastidii, all’albergo se n’andò, ap-


  1. Il Petrarca.