Pagina:Boccaccio - Ninfale fiesolano di Giovanni Boccaccio ridotto a vera lezione, 1834.djvu/231

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epistola 61

gnazione di molti, la quale di plebei ancora a grandissimi re nocette. E non è cosa di savio credere, con questo suo stomacoso furarsi, ingannare coloro che aspettano. Veggono alcuna volta, ancora de’ minori, con l’occhio del lupo cerviere quello che dentro alle camere di tali, quale esso è, si faccia. Ma finalmente, poichè lungamente ha uccellato coloro che l’addomandano, ed è a sè medesimo tedioso già fatto, aperte le porte, esce in pubblico, colla fronte ripiegata e con grave ciglio, sospirando, con gli occhi levati qua e là guardando. Volgonsi nella faccia di lui uscente fuori gli sventurati; con umili voci di lagrime e di dolore impedite addomandano che a loro sia fatto ragione; ma egli, come occupato in grandissimi pensieri, s’infinge, se ’l fatto non gli piace, non avere udite le cose che dette gli sono; e benchè alcuna volta risponda, con vane promesse ed avvolgimento di parole, e con indugiare schernisce i miseri. A che dico io molte cose? Non altrimenti tratta ciascuno che se dal cielo a lui solo sia superinfuso lo spirito, agli altri de’ bruti animali. Misero me, ch’io non posso rifrenare la penna, ch’ella non mi tiri colà dove io non vorrei essere andato!

Ha costui così posto giù la memoria del suo primo stato, ch’esso non si ricordi quando mercatante venne a Napoli, d’uno fante solamente contento? E non fu questo ad Alba, fondando Ascanio, ovvero Silvio; ancora non è conceduto il trigesimo anno: vivono molti che se ne ricordano, ed io sono uno di quelli. Donde è questa superbia così grande? donde è questa schifiltà intollerabile da ogni uomo? Già