Pagina:Boccaccio - Ninfale fiesolano di Giovanni Boccaccio ridotto a vera lezione, 1834.djvu/252

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82 a messer francesco

scenti, e con lento passo infino ad Aversa me n’andai; e quivi fui due dì con un amico, non nascondendomi, ma palesemente; di quindi ripigliando il cammino. E conciofussecosach’io fussi pervenuto a Sulmona, da Barbato nostro uno dì con grandissima letizia della mente mia fui ritenuto, e maravigliosamente onorato. Di quindi partito, dopo il secondo dì uscii del regno. È questo modo de’ fuggitivi?

Ma perchè doveva io fuggire? Aveva io posto innanzi a Tieste, mangiando a mensa, i figliuoli tagliati e cotti? Aveva io nascosamente di notte a’ Greci aperte le porte di Troia? Aveva io nel vaso d’oro porto il veleno ad Alessandro di Macedonia domatore d’Asia? O aveva fatta alcun’altra cosa fuori di regola? Non veramente. Dal sozzo giogo aveva sottratto il collo. Qui che è di male? Volesse Dio che tu conoscessi l’errore tuo, e se altrimenti non ti fusse conceduta, arrapperesti quella. Che animo fosse verso di me al tuo Grande, mi curo poco io, usando la parola di Terenzio: tanto pregio non compro speranza. Se io veggo non avere fatto a coloro a cui egli era tenuto, non debbo credere ch’egli il facesse a me. Siensi sue le ricchezze ch’e’ possiede, sua sia la gloria trovata, ma mia sia la santa libertà. A me è più d’onesta letizia nella mia povera casetta, che a a  lui non è nella sua casa d’oro. Certo l’avere adirato il Grande confesso non essere senno, ma ben conosco di avere assai acquistato essendo servata la libertà.

Ma tolga Dio che, posta la libertà, io dia opera all’ira sua. Io non ho operato di meritarla. Egli è