Pagina:Boccaccio - Ninfale fiesolano di Giovanni Boccaccio ridotto a vera lezione, 1834.djvu/288

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Ma che? dopo lungo travaglio, alfine maritai la grazia della mia dominatrice, che io vivace sì, ma rustichetto, breve tempo mantenni. Per altro stando nell’auge della ruota volubile senza conoscere le giravolte lubriche, gli instabili assalti, e le reciproche vicissitudini delle fortune, all’impensata essendo nato un caso da scriversi con lacrime, non con inchiostro, vengo nondimeno alla mia signora in orrore, per lo che mi trovai gittato in un abisso di mali e miserabilmente per terra. In tale stato altamente gridai più volte oime! nè valendo ingegno a racquistarne la grazia, il fazzoletto alla rossa faccia coperta di lacrime spesso accostava, il petto da varii pensieri affannato i’ soffriva; e le miserie mie, riandando pensosamente i tempi anteriori, con pianto e loquacità raddolciva. Per che non vedendo più via a racquistar salvezza, scorgendomi vicino all’ultime disgrazie mie, levato sospiro più alto, e rivoltomi coll’atto solito al cielo, a dir cominciai: o Dii celesti, soccorrete una volta alle mie pene! e tu dura fortuna finisci omai d’incrudelire: che sacrificato abbastanza con questi tormenti miei ti fu!

Allora un amico per età garbatello e del tutto ingegnosetto, per conforto mi si accostò1. Eh


  1. Il ch. Signor professor Carlo Witte, tanto benemerito delle lettere italiane pe’ suoi studi sopra Dante, mi fece avvertito che questo amico potrebbe essere stato Dionigi Roberti, il quale dopo una lunga dimora a Parigi passò per Avignone a Napoli appunto nel 1339, quando scrisse il Boccaccio al duca di Durazzo; ed an-