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parte del loro; e che quel medesimo ch’e’ ricuperavano, il tiranno non l’avrebbe dato loro, se prima lor non lo avesse tolto: e tali ci erano che avrebbero oggi ricolto i sesterzi, e gozzovigliato alla pubblica festa, benedicendo Tiberio e Nerone per la loro bella generosità, che domani, essendo forzati di abbandonare il loro in preda all’avarizia, i figliuoli alla lussuria, il sangue stesso alla ferocia di questi magnifici imperatori, non fiatavano, se non come un sasso, nè si bucicavano da qui a lì, se non come un tronco d’albero. La plebaglia è stata sempre a questo modo: in quel piacere che senza vergogna non potrebbe accettare, la ci si tuffa tutta all’impazzata; al torto e al dolore, cui non può comportare senza vergogna, non si scuote nemmeno. Io non credo esserci ora veruno, il quale udendo dir Nerone, non si senta venire i brividi al solo nome di quell’orribile mostro, di quella sozza e laida bestia; or chi crederebbe, che, dopo la morte di lui, così disonesta come la vita, il nobile popolo romano, per la ricordanza de’ giuochi e de’ festini ne sentì cotal duolo ch’e’ fu lì lì per mettersi bruno? Almeno lo scrive Tacito, autore eccellente, grave, e da credergli a chiusi occhi. Nè ciò parrà mica strano, chi pensi che quel popolo medesimo aveva fatto altrettanto quando morì Giulio Cesare, affogatore delle leggi e della libertà; in cui non è stato trovato, se non erro, altro pregio di qualche conto, se non la affabilità, la quale comecchè messa tanto alle stelle, fu più pestifera d’ogni più gran ferocia del più brutale tiranno; perchè proprio questa velenosa dolcezza fu quella che indorò al popolo romano la pillola della servitù. E così, morto ch’e’ fu quel popolo, che aveva tuttor nel palato il sapore dei suoi banchetti, ed in cuore la ricordanza delle costui