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questo a confronto l’atto del 1243, si nota che nel primo chi interrogò la donna fu il messo regio, e nel secondo furono due parenti della donatrice, se bene vi fosse presente il console di giustizia del luogo. Tale differenza non istarebbe (a mio avviso) fuorchè nella ragione della legge, poichè l’atto di donazione, siccome meramente grazioso, aveva bisogno di una tutela maggiore di quella che si richiedeva negli atti onerosi. Or dunque questa protezione della legge negli atti di donazione consisteva nella pratica che il mundoaldo o tutore, il quale era sovente parte interessata, interrogasse la donna invece del messo regio, del console, od altro officiale presente all’atto, e ne approvasse il contenuto.
Quest’ultimo documento non mi chiarisce quanti fossero in Busto i consoli, i limiti dell’autorità loro, le condizioni necessarie alla nomina, le solennità dell’elezione, e la durata del ministero, se bene si possa inferire da altre pergamene dell’Archivio Diplomatico di Milano, la facultà ai medesimi di radunare li abitanti per li affari communali, di deciderne le contese, di assistere alle donazioni, ed agli altri atti inter vivos, di assegnar mundualdi, o sia tutori ai pupilli, ecc.
Perchè poi in quest’atto del 1278 trovinsi ancora i riti e le formole proprie delle persone professanti la legge longobarda, io non saprei scoprirne il motivo che in una tradizione di famiglia, o nel tacito consentimento de’ notai, o nella continuazione dell’uso, o per dir meglio in un sentimento patrio per dimostrare da quali avi discendevano le parti contraenti. La legge longobarda durò presso di noi più lungamente di quello che hanno opinato li scrittori più competenti in questi studii.
Parecchi esempi di tal legge rinvengonsi nelle pergamene del secolo XIV spettanti al Bergamasco, e se ne