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Lungi però dal fare una caduta, egli ne aveva tutti gli onori che si concedono ai più benemeriti uomini dello Stato, quando rientrano per poco nella vita privata per ritemprarsi a nuove opere in vantaggio del proprio paese.
Il re, e come principe e come amico, gli dava pubbliche testimonianze di stima e di alletto; e la maggioranza parlamentare chiarivasi disposta a richiamarlo al seggio presidenziale se le cure della sua salute infralita non lo avessero tratto per alcuni mesi lontano da Torino. Tant’è che al riaprirsi della nuova sessione lo vediamo rieletto a presidente con una grandissima maggioranza.
Se non che l’anno 1859, fecondo di tanti avvenimenti per la nazione italiana, attendeva Rattazzi a ben altre prove.
Alla pace di Villafranca egli era chiamato a succedere al conte di Cavour ed a comporre un nuovo ministero.
Per giudicare rettamente il grave cómpito che questo assumevasi, giova riportarsi col pensiero alle condizioni in mezzo alle quali esso prendeva fra le mani le redini della cosa pubblica.
L’annunzio dei preliminarî di pace, giunto tanto più inatteso dacchè seguiva così dappresso quello della gloriosa giornata di Solferino e di San Martino, gettava il paese prima nella costernazione, poi nella più penosa incertezza.
Il pensiero della povera Venezia condannata ad un nuovo trattato di Campoformio, contristava anche i più temperati, i quali da un lato erano dolenti di dovere smettere quella magnifica speranza che aveva suonato nelle parole dell’imperatore Napoleone quand’ebbe ad augurare l’Italia libera dall’Alpi all’Adriatico, e tenevano dall’altro di vedere il Piemonte costretto dalla prepotente forza delle cose a differire il compimento del suo programma ed a compenso dei suoi ineffabili sacrificî, correre il rischio di essere giudicato gretto ambizioso, facile a contentarsi d’ingrandimenti territoriali, lieto di rinnovare tratto tratto la storia della foglia del carciofo.