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Non eri tu di là dal terzo Sole,
Che Latona a Vulcan sendo venuta
Pei doni usati a tenerella prole
La prima volta, che ci fu veduta,
Su le ginocchia ti locò di Bronte,
E tu del petto nella chioma irsuta
Le mani gli avvolgesti ardite e pronte
Sì che dimostra ancor pelato varco
Sembiante a liscia per calvezza fronte.
Perchè col cuor d’ogni temenza scarco
Incominciasti in tal libero suono:
Or su, Ciclopi, una faretra un arco
Di fabbricare a me fatemi dono,
Non è già di Latona unico figlio
Apollo, di Latona ed io mi sono,
E se cinghial con vostre frecce piglio
O fiera altra maggior, la mensa vostra
Ciclopi apparecchiarne io mi consiglio.
Qui ognun le domandate armi ti mostra,
E tu vi stendi le bramose mani,
E per veltri di Pan corri alla chiostra.
Una lince Menalia allora in brani
Metteva a disbramar Pane il digiuno
Delle nutrici dei lattanti cani.
Tre dalle orecchie penzolanti, ed uno
Pane ti diede alla picchiata cute,
E coppia maculata a bianco e a bruno,
I quali anco afferrar per le vellute
Gole e atterrare e strascinar lioni
Supini alle capanne avrian virtute;
Sette veltri di Sparta aggiunse buoni
Il lepre a conseguir che non s’addorme,
Rapidi più che rapidi Aquiloni,
E de’ cervi a cacciar buoni le torme,
Di caprioli e d’istrici il covile,
E di fugaci damme a spiar l’orme.