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luigi la vista 353

 Certo in queste parole ci è come l’eco di Werther, di Jacopo Ortis e di Aroldo; ma è un eco che divenne voce propria in un’anima, la quale sentiva il grande e il sublime non meno potentemente che quelle anime sorelle, di cui ripeteva qualche accento. Giovani nativi di quelle contrade, la prima volta che ci tornerete, vogliate salire sul Vulture, e la memoria del vostro La Vista accrescerà in voi gli effetti stupendi che produce di per sè il salire in alto. Quel nostro glorioso Petrarca, che primo al mondo cercò sulle vette dei monti il sublime della natura, ne scendeva poi quasi sgomentato dal sentimento del sovrannaturale, che opprimeva in lui il nascente uomo nuovo. Ma il giovane lucano, travagliato dalla malattia della coscienza moderna, ne scendeva dicendo: «Eterna natura, natura arcana, io ho tremato un istante innanzi a te, ma io mi sento nato a strapparti il tuo segreto.... Noi lotteremo, e la nostra lotta finirà quando o io avrò compreso te, o tu avrai annullato me».1

Qui avvertiamo tutto l’orgoglio e l’ambizione infinita dello spirito moderno, e nel tempo stesso il presentimento di affanni non meno infiniti, e che non sarebbero cessati se non per morte. Montando, egli era Werther; scendendo, è Fausto. Ah! egli non aveva una patria; e a quel male non c’è altro rimedio che l’avere una patria, in cui ognuno possa spendere se stesso in servigio di lei. A noi, poscia che dalle vette dell’Appennino che parte Italia abbiamo cercato

  1. Memorie cit., p. 285.