Pagina:Caro, Annibale – Opere italiane, Vol. I, 1912 – BEIC 1781382.djvu/261

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Procuratore. E ’1 vostro?

Gisippo. Sciotto.

Procuratore. Infíno ad ora séte di una giurisdizione. Erano anticamente di questi lochi?

Giordano. Il mio diceva essere venuto da Scio.

Procuratore. Eccoli di una patria. Di che casato è il vostro?

Giordano. Dei Coresi.

Procuratore. E il vostro?

Gisippo. Dei Coresi.

Procuratore. Saldi. E d’una casa séte. Come si chiamava il vostro?

Gisippo. Messer Agabito.

Procuratore. E il vostro?

Giordano. Messer Franco.

Gisippo. Voi figliuolo di messer Franco, mio zio?

Giordano. Voi figliuolo di messer Agabito, fratello di mio padre?

Procuratore. Piano !

Giordano. Oh! io non intesi mai ch’avesse figlio che si chiamasse Gisippo.

Gisippo. E Tindaro?

Giordano. Tindaro, si. Séte Tindaro voi?

Gisippo. Si, sono.

Giordano. O perché Gisippo?

Gisippo. Basta, per buon rispetto.

Procuratore. Ma chiaritemi prima d’un dubio. Sapevi voi, Gisippo o Tindaro che voi siate, che vostro padre avesse questo fratello romano?

Gisippo. Signor no. Ma si bene a Genova.

Procuratore. Cavaliero, dunque vostro padre venne di Genova a Roma?

Giordano. Signor si; aperse qui una ragione coi Centurioni, quattro anni avanti al sacco, e, poco di poi ch’io fui nato, si mori.

Procuratore. Questa partita è chiara. Voi séte cugini al sicuro. Ma fermatevi. Dite voi, cavaliero, che la vostra donna è dei Canali.