Pagina:Caro, Annibale – Opere italiane, Vol. I, 1912 – BEIC 1781382.djvu/262

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Giordano. Signor si.

Procuratore. Di chi figliuola?

Giordano. Di messer Pietro Canali.

Procuratore. Di quel che fu protonotario?

Giordano. Di quello.

Gisippo. Oh che sento io! Giuletta mia dunque è cugina d’Argentina!

Procuratore. Come cosi?

Gisippo. Questo messer Paolo fu fratello di Giovanni Canali, il quale è padre della Giuletta, e ora è qui con un altro suo fratello.

Procuratore. Che sono gli straccioni?

Gisippo. Cosi mi par che li chiamino: ma sono dei Canali.

Giordano. Questi sono dunque i zii di mia moglie.

Procuratore. Oh! so troppo, eh’ è questo!

Giordano. Essi son qui; ed io andava a trovarli in Levante!

Procuratore. A che fare?

Giordano. A far partito con loro dei beni di questo messer Paolo, che appartengono alla mia donna.

Procuratore. Vi è caduto il cascio nei maccheroni e, forse che non aranno ben il modo di darvene qui la valuta. Tindaro e Giordano, voi state cosi in cagnesco? Come non vi riconoscete voi? Vi séte pur fratelli.

Gisippo. Cavaliero, io mi sento tutto non so in che modo intenerito, e l’animo mi dice che voi séte del mio sangue; si che vi perdono la superchieria che mi avete fatta e vogliovi per fratello.

Giordano. Ed io vi vorrei poter perdonare quella ch’avete fatta a me; ma l’ingiurie dell’onore non si patiscono cosi di leggieri.

Gisippo. Nell’onore avete offeso voi me, a sforzar la mia Giuletta.

Giordano. Io non l’aveva prima né per Giuletta né per vostra. Di poi, se ben l’ho tentato, non l’ho però fatto.

Gisippo. Ed io non v’ho né fatto né tentato di farvi disonore; e, se tra madonna Argentina e me si è trattato di parentato.