Pagina:Caro, Annibale – Opere italiane, Vol. I, 1912 – BEIC 1781382.djvu/92

Da Wikisource.

Predella

Chi vide mai effetto di voler veder troppo, esser il veder nulla? E questo si vede pur in voi, che, con la vostra cerviera vista, dall’un canto volete veder cose che nessun altro può vedere; dall’altro non vedete quel che vede ognuno. E chi fu mai tanto cieco e tanto insensato delle cose di poesia, a chi queste metafore di cigni, di foco, di volare e cantare non fossero cosi note e chiare per significare i poeti e la vaghezza e l’altezza di poetare, come le proprie voci stesse? Ma poiché solo voi non n’avete notizia, udite quel che dice Ovidio di questo foco stesso:

Est deus in nobis: agitante calescimus ilio.

Udite quel che ne dice Stazio:

Pierius menti calor incidit...

Non vedete che questo «calore» è quel medesimo col «foco» del Caro, e preso nel medesimo senso a punto? E, quanto al volare e cantare, per mille essempi che se ne potessero addurre, non vi basta quel solo che dal mio dotto Salentino v’è stato allegato sopra ciò, di Platone? «Che i poeti da certi lor fonti melliflui, e dagli orti e dai prati delle muse, ne portano le lor canzoni, come Papi il mèle». Non dice Platone, in quel loco, queste parole stesse: «che volano ancor essi come Papi; e che’l poeta è cosa leggiera, volatile e sacra, non atta a cantare, se prima, gonfio da un certo spirito divino, non esce fuor di sé»? Voi vedete ora, che ciascuna di queste metafore per se stessa è buona e conveniente, e usata dagli altri. Che vorreste ora? Accozzarle insieme, e vedere come il foco possa far volare e cantare? Son contento mostrarvelo. Ma poiché in questa pratica delle metafore, giá la terza volta, la sottilitá vostra mi riesce grossetta anzi che no, mi delibero di darvela grossamente ad intendere, prima con un essempio materiale delle maschere, il qual mi soviene ora, perché siamo di carnovale, che i mascherati vanno