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Pagina:Catullo e Lesbia.djvu/14

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8 i tempi di catullo.

sapevano acquetare e commuovere coi fragorosi tripudi e col suono spaventoso dei loro barbarici sistri.1

Lo splendore della vita militare non potea non gettare un luminoso riflesso sulla vita civile di Roma: le quaranta lumiere fiammeggianti d’intorno a Cesare nel suo più glorioso trionfo2 doveano certamente valere a qualcosa. Il popolo gongolava di gioia al magnifico spettacolo di tanti lumi, di tanti elefanti, di tante aste cariche di spoglie nemiche, di tante legioni, di tanti trofei; le tre superbe parole: veni, vidi, vici, notate in una tavoletta e portate in gran pompa dinanzi al trionfatore del Ponto, ricordavano i tre passi del Nettuno d’Omero, riproducevano con mirabile effetto la portentosa rapidità di quelle vittorie.

Fra le supplicazioni, i trionfi, i giochi e gli spettacoli d’ogni maniera si dimenticarono un tratto i recenti orrori della guerra civile, le proscrizioni di Silla, i soprusi dei nobili, la corruzione dei cavalieri, la pericolosa oppressura delle province, i fieri tentativi di Spartaco e di Catilina; si sarebbe detto, che il grido delle ottocento città conquistate da Cesare nelle Gallie assordasse, inebriando, la gran tiranna del mondo, mentre al lamento d’un milione di prigionieri si ridestavano dalla morte gli altrettanti scheletri degli uccisi,3 che, inoltrandosi a poco a poco e rinserrandosi ogni dì più intorno a lei, potevano, dopo quattro secoli, piombarle addosso, straziare il suo corpo, insultare ferocemente al suo maestoso cadavere.

  1. Strabone, Geograph., IV, 198.
  2. Svetonio, in Jul. Caesare, 37.
  3. Plutarco, in Caesare, 15.