Germe d’Anfitrïon, quando a l’impero 145 Del feroce tiranno ubbidïente,
A prosciugar la putida palude,
I reconditi visceri diruppe
De la montagna, e di Stinfale i mostri
Tutti colpì de l’infallibil dardo. 150 Gli s’apri quindi il ciel; fra’ Numi assunto
Fu per tanta fatica, onde a più lunga
Verginità non fosse Ebe devota.
Ma di baratro tal ben più profondo
Fu l’amor tuo, bella Laodàmia, a cui 155 L’indomita cervice, amor sol’esso
Obbligò al giogo ed al dolor costrinse.
Nè tanto caro a genitor cadente
È d’un tardo nipote il piccioletto
Capo che gli educò l’unica figlia, 160 E del diffuso patrimonio avito
Tosto ei segna e destina unico erede.
Disperdendo così l’empia speranza
Del deluso gentil, che a la canuta
Testa, ingordo avvoltoio, insidia intorno; 165 Nè mai colomba, abbenchè facil voli
D’uno ad un altro amor, lieta fu tanto
Del suo niveo compagno, a cui sul caro
Rostro che la morsecchia avida figge,
Più d’ogni uccel voluttuösa, i baci; 170 Quanto al tuo cor, fida Laodàmia, il biondo
Sposo fu caro, a cui l’amor t’aggiunse.
Tal la fanciulla mia, tal la mia luce,
Che poco, nulla, è a te di ceder degna