Pagina:Cicerone, Paradoxa (volg. it).djvu/16

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E non mai io dirò colui avere perduto i beni, il quale arà perduto la pecunia o masserizie. Spesse volte io loderò quello Biante, come io penso, il quale è nel numero de’ sette savi; del quale conciò sia cosa che il nimico avesse presa la città piena di molte abbondanzie, e conciò sia cosa che tutti gli altri così si fuggissino, che molte delle loro abbondanzie se ne portavano (3), e benché esso fusse da alcuno ammonito, che esso come gli altri facesse, esso disse: Io lo fo, perché meco io porto tutte le cose mie. Colui non stimò essere sue queste cose» che sono giuochi della fortuna, le quali noi ancora chiamiamo beni. Domanderà adunque alcuno che sia bene? Se alcuna cosa è fatta rettamente e con onestà, et è con virtù, quella sola io stimo essere bene.

Ma queste cose possono parere senza esempli oscure: nientedimeno esse sono disputate leggiermente. Dalla vita e fatti di sommi uomini sono illuminate queste cose, le quali paiono a parole essere disputate più sottilemente che sia assai (4). Imperocchè io addimando da voi, se vi pare che coloro, i quali a noi hanno lasciato questa republica sì egregiamente fondata, avessino quella opinione o dell’oro o dell'ariento ad avarizia, o de' piacevoli luoghi a diletto, o di masserizie a dilicatezze, o di vivande a piaceri. Ponetevi innanzi agli occhi ciascuno de' re (5). Volete voi cominciare da Romulo? o volete, poiché la città fu libera, da coloro i quali la liberarono? Or con che gradi montò Romulo in cielo? Salse esso con questi, che costoro chiamano beni, o vero colle virtù et egregi fatti? Or che fece Numa Pompilio? Stimiamo noi che i suoi piattelli e’ vasi di terra