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154 ciceruacchio e don pirlone

Giunto qui, il poeta chiude la sua ode disordinata con una strofa, in cui mancano le finezze di Pindaro, ma nella quale rugge tutto l’impeto pindarico, che soltanto da un ardentissimo amor di patria poteva venire allo scorretto ed affrettato autore inspirato:

Ohi alfin giungesti splendida
Aurora di salvezza,
E de’ frementi popoli
Prorompe alfln l’ebrezza!
Oh ruggi, ruggi unanime
Indomito, immortale,
Ai scellerati Teutoni

Terribile, fatale
Ruggi o saluto italico
Ruggì dall’Alpe al mar!!!...

L’odio ai gesuiti, in Roma, era profondo e diffuso in tutte le classi, e basterebbero a provarlo le aspre censure che contro la Società di Loiola osa muovere, nella sua storia, il cattolico apostolico romano, e a Pio IX devotissimo sempre, dott. Benedetto Grandoni1.

La stampa clandestina e le insistenti premure che facevano presso il Papa il conte Pellegrino Rossi, il padre Gioacchino Ventura, monsignor Corboli Bussi e il conte Pasolini, i soli liberali fra tutti coloro che più frequentemente vedevano il Pontefice e il cardinale Gizzi, indussero finalmente il Governo a pubblicare la legge sulla stampa il 15 marzo 1847. Una magra e tisica legge che - se fosse stata osservata - avrebbe lasciate ancora le manifestazioni dell’opinione pubblica per mezzo dei giornali in piena balia dei censori, che furono fissati nella legge nel numero di quattro e designati nelle persone del marchese Carlo Antici, del prof. Salvatore Betti, dell’abate Antonio Coppi e dell’avv. Giuseppe Vannutelli. Nella legge, oltre questo ufficio di censura preventivo per le materie amministrative, storiche e politiche, era conservato l’ufflcio di censura ecclesiastica per le materie religiose. Insomma una legge del ti vedo e non ti vedo, che recava l’impronta delle condizioni d’animo del Pontefice; contentare i liberali e non scontentare i reazionari, allentare alquanto le briglie, ma tenerle sempre strette in pugno

  1. B. Grandoni, op. cit., parte I, pagg. 18, 19 e 20.