Pagina:Ciceruacchio e Don Pirlone.djvu/420

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capitolo settimo 413

geuere, a quei tempi, poco studiava e meno viaggiava. E, fin dal 1845, egli cominciò a dar saggio di sé come scrittore in versi e più specialmente in prose letterarie, pubblicate qua e là, nelle poche effemeridi che si stampavano a Roma a quei tempi, previa - bene inteso - la superiore approvazione. Quelle scritture provavano la maturanza degli studi del Pinto, e, segnatamente, la profonda conoscenza che egli aveva della storia letteraria d’Italia e la buona preparazione di lui a potersi estendere nei campi, allora quasi inesplorati, delle letterature comparate.

Il Pinto, giovane di grande probità, era caldo liberale, e lo fu poi sempre e di carattere fermo ed energico dotato. Franco, aperto, leale, era di spirito gioviale, argutissimo ed efficace parlatore e chiaro e sensato argomentatore.

Anche l’Epoca, adunque, che salutava con fiducia la elevazione del Mamiani al potere, si occupava della preparazione degli elettori a buone scelte nei prossimi Comizi.

Già fin dal giorno 3 maggio, mentre il Mamiani intendeva alla scelta de’ suoi colleghi nel Ministero, Fio IX, fosse rimorso, fosse paura, fosse un residuo di tenerezza verso quel nobile ed alto ideale della rigenerazione italica - ideale che aveva pure volteggiato dinanzi all’accesa e inebriata sua fantasia nei primordi del suo pontificato - o fosse per effetto di tutti tre quegli impulsi insieme, scriveva una lettera all’imperatore d’Austria nella quale lo esortava, in nome della pietà e della religione a voler desistere da una guerra, che senza poter riconquistare all’Impero gli animi dei Lombardi e dei Veneti, trae con sé la funesta serie di calamità che sogliono accompagnarla; e invitava la generosa nazione tedesca a deporre gli odii e a convertire in utili relazioni di amichevole vicinato una dominazione che non sarebbe nobile né felice, quando sul ferro unicamente posasse; e confidava che ognuna delle due nazioni volesse ridursi ad abitare ciascuna i naturali confini con onorevoli patti e con la benedizione del Signore.

Fannicelli caldi, scioccamente apprestati, a guarire la grande e irreparabile ferita prodotta alla causa nazionale dalla pontificia Allocuzione; espediente, che sarebbe potuto sembrare un tratto di raffinata ipocrisia se non fosse stato una ridicola melensaggine e se non fosse stato la prova più aperta dell’asso-