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DI PAOLO FERRARI. 23

di Sevignè e che le scuole proclameranno capolavori, ma che faranno dormire il pubblico in piedi, sia pure d’un sonno pieno di alta reverenza?

Che! Che! l’autore del Goldoni non ha di queste fisime in testa. Egli non ha bisogno di convertir la sua arte nè alla Chiesa nè a Dio, nè di darle altro altare da quello che il suo cuore le eresse il primo dì; egli non ha che da frugar nelle sue memorie, le quali dal fondo degli anni lontani gli mandano una nota gaia, limpida, giovanile: e a quella il suo cuore sussulta, risponde, prova un brivido e rammenta, come chi ravvisa dopo gran tempo esseri cari. È lui, il bello antico ideale che ritorna, sono le figure festose del Goldoni che rivivono, che gli vengono incontro, è il tramonto che si ricongiunge in una festa di lampi all’aurora! In quanto alla Chiesa, se ancor vuole il tributo di Racine e pretende nel trionfo la sua parte, bisognerà che s’accontenti della predica del Cardinal Malaspina e della similitudine della lavandaia.

Oh io la ricordo come oggi la sera che fu la prima del Fulvio Testi a Milano! non fu una recita, ma una festa di famiglia: la commozione era nell’aria. Io lo rivedo, il vecchio poeta, là fra le quinte, commosso alle lagrime, stringere convulso, senza quasi conoscere alcuno, le mani che stringevano la sua: quasi ringiovanito di dieci anni dalla speranza che tornava ad alitargli sul viso, — già sognante vittorie venture! Quanto amarezze quell’ora consolò!