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Pagina:Contributo alla storia della letteratura romanesca.djvu/12

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ne prendeva appunti coll’intenzione di ordinarli, in seguito, per tradurli in latino. Questi appunti sono quelli contenuti nel codice vaticano pubblicati dall’Armellini.

Il dott. Mario Pelaez1 procurò un’edizione più corretta dei due trattati dell’Inferno e del Purgatorio, e la traduzione latina ebbe la luce per opera dei Bollandisti.2

Le visioni sono scritte in una lingua rozza, ma non priva di un certo calore, direi quasi che la forma prende attitudini e movenze, secondo il grado della passione che l’agita, e assai spesso dà l’impressione di un inno: poveri inni di povere anime, in una prosa verseggiata, piena di frequenti assonanze e spesso addirittura di rime.

Che una donna debole, mal nudrita per ispirito di penitenza, colle carni lacerate dai cilizî e tutto l’organismo impoverito, cada in frequenti deliqui non è da meravigliare, ora che la scienza ha spiegato tanti misteri e risoluto tanti problemi; che nel deliquio la tenacia dello spirito continui la vita anteriore, di modo che le rappresentazioni fantastiche non subiscano alterazioni dalla sospensione della vita vegetale, anche questo è un fenomeno psichico troppo studiato e dichiarato perchè ci possa lasciare meravigliati.

Così, Francesca cadeva in queste catalessi o in chiesa, dopo essersi accostata al sacramento dell’altare, cioè dopo il rituale digiuno, che aveva stremato più che mai il corpo già debole, o quando, la sera, si rinchiudeva nella camera a far penitenza e a meditare sui divini misteri.

Del resto, come ai giorni nostri tutte queste visioni sono fenomeni psichici spiegabilissimi, così nel s. XIV, in Roma, e ad anime semplici, quali erano Francesco e il parroco Mattioti, e a tutti quelli che vivevano nel loro ambiente e nello stesso ordine d’idee, dovevano parere e parvero miracoli.

Le visioni contenute nel I libro sono 77 e vanno dal luglio 1430 al dicembre 1440, mentre la Santa morì nel marzo di quest’anno: anacronismo che basta da solo a dimostrare quanta fede

  1. cfr. Op. cit.
  2. Atta Santorum, Martii, t. IX, 326, Venetiis 1735.