Pagina:D'Annunzio - Canti della guerra latina, 1939.djvu/197

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giovine e con la criniera fulva come l’estate,
140sul gran stallone di neve dalle froge rosate,
che per ala ha il candido manto,
cavalca Egli nel delirio come in un nembo ardente,
fiso alla morte, e l’amore della sua morta gente
l’inalza alla vita del canto.
 
145O vita! O morte! Il mio canto vien di sotterra o spira
dal mio petto? Son io servo dell’inno senza lira
o son io signore del fato?
Tutte le vie della notte furon da me percorse
per amor del tuo mattino, Patria. Ma so io forse
150come questo giorno m’è nato?
 
Non ho perduto il mio giorno? non ho perduto i doni
della trasfiguratrice? Che val se m’incoroni?
O fine delle cose impure!
Son nel carcere dell’ossa, nei lacci delle vene,
155e non diffuso nei vènti, nelle acque, nelle arene,
in tutte le tue creature.
 
Con una meravigliosa gioia tesi le mani
a rapir la morte. E sempre diceva ella: «Domani.»
Sempre diceva ella: «Più alto!»
160La inseguii di là da ogni mèta al mio cor promessa.
Ed ella diceva sempre: «Più oltre!» Era ella stessa
il volo la schiuma l’assalto.