Pagina:D'Azeglio - Ettore Fieramosca o la disfida di Barletta, 1856.djvu/210

Da Wikisource.

capitolo xv. 207

bolava Fieramosca, il quale non amando tali scherzi teneva un contegno serio, ed in parte malinconico, interpretato dalla donzella a suo modo, e questo modo era molto lontano dal vero.

Alla fine D. Elvira con quell’arrischiata imprudenza, che era tutta sua, cogliendo un momento che teneva Ettore per mano, si piegò verso di lui e gli disse all’orecchio: Finito questo ballo andrò sul terrazzo che dà sul mare; venite, che voglio parlarvi.

Fieramosca colpito dolorosamente da queste parole che gli mostravan imminente un gravissimo intrigo, accennò col capo di sì, un poco mutato in viso, e senz’altra risposta. Ma sia che le precauzioni di D. Elvira nell’abbassar la voce non fossero state bastanti, o che Fanfulla troppo stesse sull’avviso, il fatto si è che anch’esso udì quelle malaugurate parole, e bestemmiando in cuor suo la ventura che toccava a Fieramosca e non a lui, diceva fra denti: Che non vi sia modo di farle costar cara a questa pazzerella?

Ettore dal canto suo era combattuto da varii pensieri: non gli passava neppur pel capo di dar retta alle lusinghe della bella Spagnuola, prima per esser nel cuor suo troppo viva l’immagine di Ginevra, poi anche senza questo motivo avrebbe avuto senno abbastanza per non volersi dar buon tempo colla figlia di Consalvo: ed essa con siffatti modi non sarebbe mai stata tale da giungere al suo cuore, che non era Ettore di quelli, i quali in questo genere son sempre pronti ad afferrar l’occasione. Per un altro verso gli rincresceva di poter passare per iscortese, villano, e forse peggio, chè pur troppo fra le contraddizioni umane v’è quella di voler chiamar cattive certe cose, e sciocco, e dappoco nello stesso tempo chi non le vuol fare. Durante il resto del ballo andò sempre lavorando colla mente per trovar modo di salvar, come suol dirsi, la capra e i cavoli, e dopo aver molte volte mutato progetto, alla