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che non ostante il suo amore per me non poteva patire ch’io rimanessi addietro, mentre si combatteva per la fortuna d’Italia, ci risolvettero in tutto, e, scritto al signor Prospero Colonna che metteva genti insieme per Consalvo, mi posi sotto la sua bandiera.

In quel tempo si trovava colla compagnia a Manfredonia, onde noi, lasciata Messina, per mare ci drizzammo a quella volta. In quel viaggio ci accadde uno strano accidente.

Eravamo sorti a Taranto; e quivi riposatici, uscimmo dal porto una mattina per andar a Manfredonia. Era una nebbia folta del mese di maggio, e la nostra barca a due vele latine e dodici remi, volava sul mare piano come una tavola. A mezzogiorno ci si scopersero addosso quattro navi ad un trar d’archibugio, e ci chiamarono all’ubbidienza. Volevo fuggirle, ed avremmo potuto, chè stavamo a sopravvento; ma considerato che coll’artiglierie potevano fare qualche mala opera, presi partito d’andare a loro.

Erano legni viniziani che venivano di Cipro, e conducevano a Vinegia Caterina Cornaro, regina di quell’isola. Saputo l’esser nostro, non ci detter noja, e dietro loro seguivamo il viaggio.

Era già fatta notte: la nebbia cresceva, ed io stimavo gran ventura aver trovato costoro che ci ajutavano a non ismarrir la strada in quell’oscurità.

Presso la mezzanotte, Ginevra dormiva e solo due uomini stavano in piedi per regolar la vela e diriger la barca; ma anch’essi tratto tratto andavano dormicchiando. Io seduto a prora vegliavo, fisso in mille pensieri. Tutto era cheto. Mi parve udire sulla corvetta della nave della regina, che ci precedeva di mezz’arcata, i passi d’alcuni uomini; gli udivo parlar sommesso, ma parole concitate e piene d’ira; tesi l’orecchio; una voce di donna si mescolava all’altre, e pareva chiedesse mercede: seguiva un pianto, e