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Checco Zirisèla che aveva il piú bel podere della vallata e non andava a messa.

«Già! u frumento!» disse il barone.

«E l’uva, cazza! L’uva!» sussurrò la signora Zirisèla.

I preti non si erano mossi dal loro salotto, strepitavano peggio di prima, quasi per soverchiar la voce dei tuoni e del vento che ruggiva rabbioso intorno ai canti della casa, sbatteva, al secondo piano, usci ed imposte, schiacciava a terra le vegellie, i philadelphus frenetici del giardino.

Neppure la baronessa Elena, rimasta sola, parea commuoversi del temporale. Abbandonata la persona sulla spalliera del canapè, teneva il viso un po’ chino al petto e le braccia strette alla vita sottile, come se avesse freddo. Gli occhi grandi, neri, guardavan le vette dei giovani abeti del giardino, agitate senza posa; parevano, nella vitrea e grave immobilità loro, vedere tra quelle vette, nel cielo oscuro, qualche fantasma, qualche solenne parola di tristezza invisibili altrui. Improvvisamente una furia obliqua di piova strepitò sui vetri, sulla mura, nascose il cielo, le montagne e gli abeti, mise un baglior bianco a tutte le porte e le finestre della sala ombrosa.

S’udì la contessa Tarquinia dir forte:

«Daniele ha preso radice di sopra. Se permettono vado un momento a vedere cosa succede.

Ella si accostò a sua figlia, le disse piano e lamentevolmente:

«Ti prego, sai, Elena, mi lasci proprio sempre sola, non mi aiuti niente. Perché tuo marito non ci soffre, anche.

La baronessa alzò appena la testa, e rispose senza guardar sua madre: