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tra cefalù e roma 179


me riguardo a questo ultimo pericolo, perchè qui si è tentati ogni momento, tanti sono gli esseri volgari, tronfi e villani; io non ho moltissimo tempo di pregare! Non sono però di quelli che la zia Tarquinia chiama «turchi.» Domenica scorsa sono andato a messa a San Pietro e vi ho udita poi una musica straordinaria. Non mi hanno saputo dire di chi fosse. Io sono un barbaro in fatto di musica, ma quella lì mi ha fatto una impressione! Mi parve una profezia sinistra rotta dal pianto. Quando uscii di chiesa il cielo era nero sul Vaticano, una occhiata di sole incendiava la fontana di sinistra, il colonnato e il palazzo; in piazza non c’era un’anima. Che presentimenti mi vennero di tempesta e di rovina! «Tout cela passera comme une voix chantante.» Fra quanti anni? O fra quanti secoli? Si ha un bel fare, ma i nostri nipoti o i nostri pronipoti vedranno quel giorno. Un poeta, amico mio, mi diceva l’altro dì che i caratteri indecifrabili di tutti questi obelischi gli mettono paura, gli paiono tanti Mane, Techel, Phares per la città eterna. Io non so leggere gli obelischi, ma leggo e compito un poco gli uomini e le cose passate e presenti, e vedo incominciato un discorso che, dopo Dio sa quante virgole e quanti punti, deve andare a finir male. Non mi perdo di coraggio, per questo. Se si arrivasse a salvar una generazione o due, ti parrebbe poco? Ma m’irrita la cecità di certuni, m’irrita di udire, per esempio, il deputato L., un grande ingegno e un gran galantuomo, dire che se si vogliono ottenere migliori condizioni per gli operai, bisogna predicare, non mica la carità e la vita futura, ma il tornaconto. Come se non fosse d’egoismo ai visceri che il secolo soffre.