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tra cefalù e roma | 185 |
Tu mi preghi per lei, Elena, mi trovi severo, ingiusto, mi dimandi pietà. Tante parole? Non era necessario dirmi ingiusto; tu non la conosci e non sai! Mi pareva più opportuno che restasse dov’è, fuori del mondo, sotto la vigilanza, però, di persona fidata. Ma verrà in Roma, e verrà in casa mia, perchè ella è tale che io non posso lasciarla qui sola, libera di scegliersi l’ambiente e le amicizie che più le talentano. Non pensare a me, cara Elena, nè alla moglie ideale che mi desideri. Non amo, non amerò mai; non vi è più tempo nella mia vita, non vi è più posto nel mio cuore per quest’amara vanità; e una famiglia mi sarebbe d’impedimento. Ho già la cara famiglia delle mie idee. Sai che tua madre diceva qualche volta: già, quando Daniele sposa un’idea! Ecco, ne ho sposate, le amo, le possiedo, e se Dio ci aiuta metteremo insieme al mondo una forte prole. Lo diceva ieri sera a M. camminando al chiaro di luna sotto i lecci della Trinità dei Monti. M., con tutta la sua imbottitura di stoppa che chiama statistica e la sua gotta che chiama nevralgia, è innamorato morto e mi faceva le sue confidenze. Poi mi chiese le mie. Io gli mostrai la luna. «Oramai» dissi «non capisco altri amanti che Caligola: plenam fulgentemque lunam invitabat assidue in amplexus.» Questo è un latino che intendi anche tu.
Ah, cara Elena, quante volte, pensando ai miei ideali mi faccio l’effetto di un babbeo che contempla la luna con una scala in mano! Per fortuna sono dubbi che passano, e la mia fede in me stesso è pronta a ben più dure prove che le presenti. Ma che lavoro ingrato su questo floscio buon senso italiano che domanda a tutte le audacie il bilancio preventivo