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chiesto a Cortis per colei il solo permesso di abitare Roma. Bisognava domandargli perdono a mani giunte, vedere se non ci fosse più rimedio. La messa era finita, la gente usciva. Elena s’inginocchiò un momento non a pregare, ma a pensare che se fosse lecito domandar simili cose a Dio, se un’anima poco credente, poco degna come la sua potesse sperarne ascolto, gli chiederebbe di provveder lui, di liberare Cortis. Uscendo di chiesa le venne in mente con un lampo d’ironia che avrebbe dovuto ricordarsi anche di suo marito. In fatto la lettera ricevuta a Cefalù le aveva messo un’agitazione più profonda, più indefinibile ch’ella non volesse confessare a sè stessa; ma ora, sapendo che la dilazione del pagamento si era ottenuta dopo quella lettera, ignorando che suo marito fosse stretto da altre necessità egualmente minacciose, non se ne curava più tanto. Era andata segretamente, la sera innanzi, in via delle Muratte; il barone era fuori; gli aveva lasciata una lettera.

Che fare di più?

Sulle scale dell’albergo incontrò il senatore Clenezzi che ne scendeva e che, vedendola salire a quell’ora, rimase lì di stucco, a mani giunte, senza nemmanco salutare.

«Cara lei» diss’egli finalmente, «ne ha altre? Sa mica che sono appena appena le sei e mezzo?

Elena sorrise.

«Che piacere ha d’incontrarmi!» diss’ella.

Il senatore si storse tutto, sospirò come se inghiottisse delle proteste venutegli alla bocca e rispose solo: «basta.» Poi le parlò di uno stranissimo biglietto di Cortis, pervenutogli in quel momento. Elena trasalì, gli si porse tutta con un atto di muta domanda. Colui le diede il biglietto che diceva: