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82 italia e grecia nelle lettere di giorgio byron


la poesia lo ha mai appagato come semplice sentimento, come pura forma: si è anzi dato a comporre versi in mancanza di meglio, giudicando che la gloria poetica non vale la pena di essere ambita. «Che cosa è un poeta? Che cosa vale? Che fa?... È un parolaio....» Andando a morire per la Grecia, egli traduce dunque ancora una volta l’intenzione in azione, aggiunge l’esempio alla predicazione; ma non sarebbe quello che è, amante dei contrasti, ricercatore delle antitesi attorno a sè e dentro di sè, a volta a volta e spesso ad un tempo apatico e appassionato, misantropo e caritatevole, idealista e cinico, ingenuo ed affettato, se anche durante questa partita suprema, in cui la posta è la sua stessa esistenza, lo scetticismo e l’ironia non gli prendessero la mano. «Vi raccomando ancora una volta di impinguare la mia cassaforte ed i miei crediti, cavando il miglior partito possibile da tutti i mezzi legali che sono in mio potere; perchè, insomma, val meglio giocare alle nazioni che scommettere alle corse....»

Conviene soggiungere che anche un motivo esteriore e concreto lo spinge allo scetticismo: la poca virtù, appunto, della quale la Grecia dà prova. I figli di lei sono in preda a dissensi che egli si propone di sedare e comporre, sapendo purtroppo che «nè l’una cosa nè l’altra è agevole....» Da Cefalonia scrive direttamente ai governanti: «Sono pervenute fino a noi voci di