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Pagina:De Roberto - La Duchessa di Leyra (di Giovanni Verga), 1922.djvu/2

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402 la lettura.
mente, pena la caduta e la vita pei deboli e i maldestri... Il primo racconto della serie, che pubblicherò tra breve, ti spiegherà meglio il mio concetto, se ci riesco. Per adescarti dirò che i racconti saranno cinque, tutti sotto il titolo complessivo della Marea e saranno 1º Padron ’Ntoni; 2º Mastro Don Gesualdo; 3º La Duchessa delle Gargantas; 4º L’on. Scipioni; 5º L’uomo di lusso.

Il titolo del primo romanzo restava ancora Padron ’Ntoni quando l’Illustrazione Italiana ne preannunziava la pubblicazione nel 1880; ma era poi mutato, insieme con quelli del terzo e di tutta la collana: questa s’intitolava I vinti e cominciava da I Malavoglia, mentre, con più lieve modificazione, la Duchessa delle Gargantas diveniva Duchessa di Leyra. Il piano abbozzato nella lettera al Paola si precisava nelle pagine della prefazione del volume iniziale e di tutta la pentalogia:

Questo racconto è lo studio sincero e spassionato, del come probabilmente devono nascere e svilupparsi nelle più umili condizioni le prime irrequietudini pel benessere; e quale perturbazione debba arrecare in una famigliuola, vissuta sino allora relativamente felice, la vaga bramosia dell’ignoto, l’accorgersi che non si sta bene, o che si potrebbe star meglio. Il movente dell’attività umana che produce la fiumana del progresso è preso qui alle sue sorgenti, nelle proporzioni più modeste e materiali. Il meccanismo delle passioni che la determinano in quelle bassa sfera è meno complicato, e potrà quindi osservarsi con maggior precisione. Basta lasciare al quadro le sue tinte schiette e tranquille e il suo disegno semplice. Man mano che cotesta ricerca del meglio di cui l’uomo è travagliato cresce e si dilata, tende anche ad elevarsi e segue il suo moto ascendente nelle classi sociali. Nel Malavoglia non è ancora che la lotta pei bisogni materiali. Soddisfatti questi, la ricerca diviene avidità di ricchezze e si incarnerà in un tipo borghese, Mastro Don Gesualdo, incorniciato nel quadro ancora ristretto di una piccola città di provincia, ma del quale i colori cominciano ad essere più vivaci e il disegno a farsi più ampio e variato. Poi diventerà vanità aristocratica nella Duchessa di Leyra, e ambizione nell’Onorevole Scipioni, per arrivare all’Uomo di lusso, il quale riunisca tutte coteste bramosie, tutte coteste vanità, tutte coteste ambizioni per comprenderle e soffrire...

La storia dei Malavoglia apparve nel 1881, e subito dopo l’autore poneva mano al Mastro don Gesualdo. Ma egli non vi spese meno di otto anni di assiduo lavoro, e quando lo ebbe pubblicato sulla Nuova Antologia, nel 1888, sentì ancora il bisogno di portarvi radicali modificazioni prima di raccoglierlo in volume: severità di autocritica dalla quale già si poteva argomentare che la Duchessa di Leyra non sarebbe seguita a breve scadenza.

La protagonista del terzo romanzo non era però ignota ai lettori del secondo. Essi l’avevano vista nascere dai furtivi amori di Bianca Trao col cugino Rubiera: colpa subito nascosta mediante il frettoloso matrimonio della giovanetta con Mastro don Gesualdo Motta. Nobilissima ma poverissima, abbandonata dal seduttore, Bianca non aveva potuto rifiutarsi di dare un padre legale alla creatura che portava in grembo, sposando il grossolano ma dovizioso imprenditore venuto su dal nulla; il quale, dal canto suo, ignorando la maternità di lei, e lontanissimo nella sua ruvidità dai fumi aristocratici, si era piegato ad imparentarsi con la casta signorile solamente perchè se ne riprometteva l’appoggio nelle speculazioni e negli appalti.

Nata sette mesi dopo le nozze, l’Isabellina era stata posta, ancora in tenera età, nel primo collegio di Palermo; dove il padre putativo, gonfio il cuore dalle fatiche e dai dolori durati nella lotta per la vita, andava di tanto in tanto a riposarsi presso la presunta figliuoletta.

Isabella s’era fatta una bella fanciulla, un po’ gracile ancora, pallidina, ma con una grazia naturale in tutta la persona gentile, la carnagione delicata e il profilo aquilino dei Trao; un fiore d’un’altra pianta, in poche parole, roba fine da signori che suo padre stesso quando andava a trovarla provava una certa soggezione dinanzi alla ragazza, la quale aveva preso l’aria delle compagne in mezzo a cui era stata educata, tutte delle prime famiglie, ciascuna che portava nell’educandato l’alterigia baronale da ogni angolo della Sicilia. Al parlatorio lo chiamavano il signor Trao. Quando volle saperne il perchè, Isabella si fece rossa...

Qui è il germe della Duchessa di Leyra, del romanzo destinato ad essere il quadro grandioso e smagliante della passione aristocratica. Fin dal suo entrare nella vita la fanciulla ha sofferto udendosi chiamare Motta, col nome del muratore arricchito; per conseguenza, non appena nel convitto, ripudia il genitore che la legge le attribuisce e rivendica il nome materno, quel sonoro casato dei Trao — virtutem a sanguine traho!— appartenente ad un’antichissima e illustre prosapia. Il ritorno nel paesetto natale, nelle selvagge campagne paterne allo uscire dal sontuoso istituto della metropoli, le procura nuove delusioni, più intense nostalgie, e la induce a cercare una consolazione nel romantico amore di un cuginetto, il poeta Corrado La Gurna. Allora la storia della madre si ripete nella figlia: anche Isabella cade, come Bianca, con uno che non può sposare; e per nascondere quest’altro fallo si ricorre allo stesso espediente di procurare un marito alla giovanetta, con questa sola differenza: che mentre sua madre, discendente da una stirpe patrizia, aveva sposato un plebeo arricchito, ella che porta il volgarissimo nome del Motta, ma ne riceve in dote le grandi sostanze, accetta più facilmente la mano di Don Filippo Alvaro Maria Ferdinando Gargantas duca di Leyra, gran signore palermitano ridotto al verde dal fasto enorme e rassegnatosi a sposare una Motta per amore di restaurare il suo blasone.

Di ciò che avviene tra i coniugi, del loro intimo e insanabile dissentimento, del nuovo lusso e delle nuove dissipazioni del duca rimpannucciato con i beni della moglie, è fatto soltanto qualche accenno, perchè il protagonista è e resta Mastro don Gesualdo, e la scena non passa nella casa ducale, a Palermo, se non nell’ultimo capitolo, quando, infermo d’una malattia mortale, Gesualdo è trasportato, poco prima che chiuda gli occhi per sempre, presso la figlia. Ma costei diviene a sua volta la figura centrale del nuovo romanzo, del quale il Verga cominciava quindi ad abbozzare la trama:

SCHEMA
DELLA «DUCHESSA DI LEYRA».

— Isabella Motta Trao, duchessa di Leyra, nata nel 1819, da Mastro Don Gesualdo e da Donna Bianca Trao.