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Pagina:De Roberto - La Duchessa di Leyra (di Giovanni Verga), 1922.djvu/8

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408 la lettura


Nelle sale della Reggia la sfilata si compiva con le regole più strette del cerimoniale di Spagna. I Grandi della medesima, autentici o apocrifi, di privilegio o di naturalezza, si coprivano: gli altri, siano pure principi del S. R. I. restavano a capo scoperto ed ognuno prendeva il proprio posto. Nessuna usurpazione, nessun conflitto di precedenza: testa, testa; corpo, corpo; coda, coda. Tra tante fasce, tra tante chiavi, tra tanti gentiluomini, di esercizio e di entrata; tra tante dame di palazzo o di città, ognuno teneva a’ rigori dell’etichetta, all’inesorabilità della gerarchia. I principi del santo impero, quando ve n’erano presenti: poi i baroni di Sicilia, che non mancavano mai; la superiorità accettata, sia pure brontolando, della Mastra Nobile di Sicilia sul Libro d’Oro di qua dal Faro; e dopo nobiltà generosa alternata a nobiltà di privilegio e a quella nobiltà diplomatica che aveva la prerogativa d’intervenire ai balli di corte e il diritto di non ballare... Poi gala a San Carlo. Nessuno moriva sul palcoscenico, ed aveva lieto fine anche quella Traviata che la pudicizia del tempo chiamava Violetta. E se bisognava morire, lo spettacolo si troncava vita teatral durante degli attori. Un atto, due atti e punto consecutivi: un comodo sipario, calato a tempo, accomodava tutto e metteva fine all’immobilità statuaria del granatiere sul palcoscenico, ne’ tempi ordinari, quando vi era un principe reale in teatro, o della Guardia del Corpo, gentiluomo cariatide nel palco di mezzo, quando il Re si mostrava in forma pubblica. O immobili granatieri e non meno immobili Guardie, del Corpo; o ufficiali dei Corpi della Guardia, dei granatieri e della Real Marina dagli splendidi alamari d’argento e d’oro sul petto, o uniformi rosso-fiammanti di quegli Elvetici che i Napolitani chiamavano volgarmente titò; fasce e tosoni, folla inargentata, dorata, inamidata, che è stato di voi?...

Questa folla, questa vita, appunto, l’artista doveva evocare nella cornice palermitana. Per rendersi conto di quanto c’era d’antiquato nei costumi di quella età, egli ne cercò l’origine nel Settecento, e raccolse gli articoli che Fabio Colonna di Stigliano veniva pubblicando sul Corriere di Napoli intorno alla Napoli mondana del secolo scorso. E poichè nelle grandi famiglie di Sicilia non era ancora spenta del tutto la tradizione delle tremende rivalità che avevano insanguinato i primi secoli dei tempi moderni, egli volle studiare quella dei Luna e dei Perollo e trascrisse di proprio pugno dalla Cerere, «giornale ufficiale delle Due Sicilie», una bibliografia del romanzo storico sul Caso di Sciacca di Francesco Milo Cuggino. Pensò anche di dover leggere altri romanzi siciliani del tempo che voleva ritrarre, e ricopiò la bibliografia dell’Amore di un soldato di Michele Giuffrè-Birelli.

Per conoscere quali avvenimenti erano realmente accaduti a Palermo nel periodo durante il quale doveva svolgersi l’azione romanzesca, si servì dell’inedito Diario Lobianco serbato in quella Biblioteca Nazionale otto volumi di minutissima cronaca cittadina e della stessa Cerere. Da queste colonne ricopiò la descrizione dello sbarco del Re e della Corte nel l’estate del 1846, scena con la quale il romanzo doveva iniziarsi, e prese nota delle feste di Santa Rosalia e della Natività della Vergine in Monreale, della messa dell’Immacolata celebrata nel campo militare sotto Monte Pellegrino in presenza di tutta la guarnigione, dell’uragano scatenatosi in primavera, della parata del 30 maggio in occasione dell’onomastico del Re, dell’apertura dell’Esposizione di Belle Arti nelle sale del Palazzo Senatorio, del concerto del violinista Antonio Bazzini, delle opere eseguite nel R. Teatro Carolino: il Don Pasquale, il Borgomastro, il Nuovo Figaro, il Furioso, la Chiara di Rosemberg, e dei cantanti che vi presero parte: Enrichetta Menville, Gaetano Donelli, Giovanni Zambelli.

Quale partito avrebbe egli tratto da tutta questa massa di documenti e di notizie? Come vi avrebbe spirato il soffio dell’arte, come avrebbe dato vita ai personaggi già concepiti nella fantasia, già frementi nel gran travaglio della gestazione?

I lettori potranno averne un’idea dalle pagine seguenti, dove si pubblica quanto egli lasciò del romanzo: tutto il primo capitolo ed un breve frammento del secondo.

LA DUCHESSA DI LEYRA

I.

«Ieri all’arrivo del vapore Nettuno con a bordo l’E.mo cardinal Pignatelli, arcivescovo di Palermo, reduce dal Conclave per l’elezione di Pio IX, e S. E. il Ministro Segretario di Stato Principe di Comitini, ed il signor Commendatore Corsi, segretario particolare del Re, si ebbe la grata certezza che S. M. il nostro adorato Signore sarebbe pur giunta a momenti, con la sua augusta Consorte, co’ suoi amabili Figli ed altri Individui della R. Famiglia.

Elevatosi a tale annunzio il solito entusiasmo, accresciuto dalla riconoscenza pel grazioso favore che la M.S. veniva ad impartirle, recando seco i più preziosi Oggetti dell’affezione sua, e pur partecipi del dovuto affetto di questi leali sudditi, l’attenzione pubblica andò subito a rivolgersi verso il mare.

Ma – continuava la Cerere, gazzetta ufficiale dell’epoca – ma l’ansietà pubblica non potè essere appagata prima dell’alba di questo giorno (11) allorchè si scoprirono le vele della Real Flottiglia».

Un nugolo di birri, in gran tenuta, scalmanavasi a mantenere l’entusiasmo dei leali sudditi dietro la doppia fila di «pàgnoli» schierati da Porta Felice al molo. La città scampanava a distesa, la real flottiglia rispondeva a cannonate – un baccano, un polverio, la gente fitta come le mosche alla Marina – bande dei «paesi», stormi di «villani» scesi pel Festino di Santa Rosalia che cominciava allora – e su quel mare di teste, tra le baionette luccicanti, sfilavano in processione i pezzi grossi che «dovevano recarsi ad ossequiare le LL. MM.», magistrati, ufficiali pubblici, uni-