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nessuno dei due poteva pensare a dolersi dell’amore della contessa e del Vérod, nè a voler male all’uno od all’altra; entrambi invece se ne dovevano rallegrare, perchè questo amore li lasciava liberi di fare il piacer loro. La morte violenta di Fiorenza d’Arda, sia per suicidio, sia per assassinio, restava inesplicabile senza un dissidio, una discordia, un dramma; l’ipotesi dell’accordo delle due coppie era inammissibile dinanzi al sanguinoso cadavere.

Dell’intima lotta sostenuta dalla contessa pochi come il Ferpierre erano edotti. Sempre che imaginava lo stato di coscienza della infelice alla vigilia della catastrofe, il giudice riconosceva che ella aveva potuto e forse dovuto uccidersi. Ma, oltre che l’accusa del Vérod e i sospetti dell’opinione pubblica e il contegno degli accusati e come una specie di secreto istinto, la stessa sua coscienza di magistrato lo difendeva contro un definitivo acquetamento in questa fiducia. La sua lunga esperienza d’inquisitore gli diceva che la verisimiglianza d’una ipotesi dinanzi a un fatto oscuro non esclude altre possibilità; il suo amore del mestiere era eccitato all’idea del caso molto intricato e difficile. Ed egli non rammentava veramente di essersi trovato dinanzi a maggiori difficoltà.

Escluso l’intimo dramma svoltosi nell’animo della contessa, quale altra lotta di sentimenti da parte degli accusati poteva spiegare la catastrofe?